Segno tangibile del patto,
espressione visibile della concorde volontà nazionale, simbolo vivente
dell’unità della stirpe, il tricolore sventolò nella reggia, sulle barricate,
sui campi di battaglia; accese negli animi le fiamme degli entusiasmi; fortificò
i voleri della virtù del sacrificio; sorrise agli occhi dei moribondi; coperse
le bare dei caduti; sfolgorò al sole nella gloria dei trionfi.
Cari e santi colori!
Quando la prima volta apparvero composti in vessillo, non furon dopo di
principi; che non erano i colori e le insegne araldiche di una dinastia: ma
furono eletti da popolo libero a consacrazione e simbolo di unione. Non fu
bandiera di Reggio e di Bologna, non di Modena e di Ferrara; ma di quel primo
nucleo, che sopra le rovesciate autonomie comunali, già cagion d’odi insani,
precorreva nella unità della repubblica Cisalpina, l’unità della patria.
E bandiera del regno
d’Italia sventolò dall’Isonzo alla Beresina; ripiegata dopo Waterloo, riapparve
nel ’21 sulle rive del Ticino, segnacolo di indipendenza nazionale; sfolgorò
nella tempesta del ’48 da Palermo a Napoli, da Napoli a Torino; da Milano a
Venezia; a Roma e a Bologna; sui campi, sulle barricate, sui bastioni. Caduta a
Novara, si rialzò a san Martino. Fermata a Villafranca, Garibaldi la riportò in
Sicilia, la piantò sul Volturno, la consacrò a Roma sulle insanguinate zone di
Mentana. In poco più di mezzo secolo, “quanta virtù l’ha fatta degna di
riverenza!”
Io non so per quali
misteriose ricorrenze questi tre colori appaian congiunti insieme, nell’arte e
nella storia, a lunghi intervalli di secoli. Virgilio li intreccia sul capo del
morto Pallante, “primo eroe caduto delle tre Rome”; Dante ne veste la donna del
Purgatorio: un re di Sicilia, di quella dinastia che nelle iscrizioni si intitolava
re d’Italia, li trasceglie come colori regali, Siena li ha in una delle sue
contrade; i congregati di Reggio li decretano come propri della repubblica
Cisalpina; i Federati del ’21 li sostituiscono ai tre colori carbonari, e ne
fanno il “santo segno” che ridurrà intorno a sé popoli da secoli divisi, quasi
sempre rivali, spesso fratricidi; e, obbliosi di sé, li scoterà dalla ignavia;
li guiderà ad essere un popolo solo, “uno d’armi, di lingua, di altar”. Cari e
santi colori, a cui i Fati non prescrissero soltanto di unire un popolo, e
incominciarne la nuova storia: ma di assurgere a significazione più alta,
universale, quasi a continuazione della universalità di Roma. Perocchè essi
staranno come il simbolo del nuovo diritto: il diritto delle nazioni a costituirsi
e a vivere in libertà entro i confini, che Natura pose e la storia consacrò.
E sempre essi staranno
come espressione di questo diritto; che la loro purezza non è contaminata da
sinistre memorie di violenze; e dall’alto del Campidoglio proclameranno al
mondo, che eterna fiamma è il diritto, né si soffoca né si opprime per
prevalere di forze; e una sola è la legge, entro la quale i popoli potranno
vivere concordi e in gare feconde per attinger forme più alte di civiltà: ed è
legge di giustizia.
Luigi Natoli
(www.ibuonicuginieditori.it)
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