martedì 5 giugno 2018

Luigi Natoli: Il vicerè Caramanico. Tratto da: Calvello il bastardo

Qualche giorno dopo il ricevimento del 4 ottobre, il vicerè Caramanico era partito alla volta di Napoli per riposarsi dalla malattia che l’aveva tormentato; e anche, come si diceva, per sollecitare la nomina ambita a ministro di Stato, che già aveva onorato il suo predecessore, marchese Caracciolo. Ma alla corte reale non trovò quelle accoglienze che egli credeva di meritare pel suo saggio governo. A Corte dominava il ministro Acton, che si diceva godesse i favori della regina Carolina: Acton odiava il Caramanico, per un sentimento di postuma gelosia, o piuttosto pel sospetto che questi, già suo predecessore nella intimità con la regina, potesse scalzarlo e riprendere il suo ascendente. Si era fatta del resto una cattiva reputazione politica al Caramanico, nè mancavano gli elementi. Prima di tutto la sua protezione – che pareva esagerata – ai letterati, pei quali la Corte nutriva una profonda avversione. Il principe, non digiuno di lettere, si compiaceva di mostrarlo, e ambiva di passare per un novello Mecenate: innocente vanità, della quale gli spiriti colti e liberali si avvantaggiavano. Fra le accademie protette da lui aveva dato ombra quella fondata da don Francesco Paolo Di Blasi, gli intendimenti occulti della quale ne avevano a poco a poco allontanato le anime paurose di ogni novità. Un discorso del Di Blasi, recitato molti anni innanzi, sulla Ineguaglianza degli uomini,  imbevuto delle dottrine del Rousseau, faceva considerare il valoroso giureconsulto come uno dei sospetti, non ostante che, in servizio della monarchia e in servizio del vicerè, avesse compilato con dottrina la  Raccolta delle prammatiche del Regno di Sicilia. 
Un suo trattato sulla legislazione criminale, ispirato a dottrine liberali e sopra un nuovo criterio della dignità umana, aveva riconfermato il sospetto che egli tendesse un po’ alle dottrine rivoluzionarie. Ma altre accuse si facevano pesare sopra il vicerè. Gli si dava gran carico di avere, nel 1793, accolto con tutti gli oneri una nave francese carica di soldati e di munizioni, e di avere invitato a pranzo gli ufficiali della repubblica; ciò che sorpassava i limiti di una cortesia internazionale, di aver tollerato che M.r Gamelin, console di Francia, avesse innalzato sulla sua porta lo stemma repubblicano, sul quale era effigiata una donna che calcava col piede le insegne dell’autorità regia: cosa che aveva acceso certi bollori nei giovani della borghesia. Infine lo si sospettava intinto di frammassoneria, e in carteggio con fuorusciti del regno e coi rivoluzionari francesi. Altre cagioni di doglianze furono la sua freddezza nella espulsione dei francesi dal regno ordinata dalla Corte, che in quell’anno era venuta in rottura con la Repubblica; e la sua inspiegabile protezione a Corrado Calvello, che avrebbe dovuto essere, se non espulso, almeno tenuto d’occhio pei suoi precedenti rivoluzionari. Appunto quel dì 4 ottobre, nel quale don Francesco d’Aquino riceveva nel palazzo reale le felicitazioni per la recuperata salute, a Napoli morivano sulle forche Emanuele De Deo, Vincenzo Vitaliano e Vincenzo Galiani, i tre giovani sospetti di repubblicanesimo; con ciò la Corte aveva apertamente iniziato la sua politica feroce e reazionaria. Il Caramanico non poteva quindi essere bene accolto, e alla freddezza con cui fu ricevuto seguì l’ordine che ritornasse immediatamente a Palermo. Né gli valse la necessità di riposarsi, dopo una malattia che per poco non l’aveva tratto al sepolcro. La Corte fu inesorabile.
Ritornò col cuore infranto, parendogli – come era di fatto – mal ricompensato un governo di sei anni, saggio e benvisto dai popoli, in tempi difficili oltre che pei sommovimenti politici, anche per pubbliche calamità. Le liete accoglienze della cittadinanza non gli sanarono la ferita: tanto più che, da quanto aveva potuto appurare, uno dei suoi occulti accusatori era l’arcivescovo di Palermo, monsignor Filippo Lopez y Royo, verso il quale egli si era sempre condotto con deferenza.

Monsignor Lopez, un leccese avido, ambizioso, subdolo, anima di inquisitore, di spia e di ladro, spirito ristretto e reazionario, era uno dei pochi, a Palermo, che avrebbero voluto far seguire al vicerè una politica di persecuzioni e di repressioni; e si scandalezzava dell’amicizia del Caramanico pel Di Blasi, per un uomo che si vantava di professare un grande rispetto per l’autore del Contratto sociale.  Il principe di Caramanico perdette la sua vivacità: diventò triste, cogitabondo, chiuso. Coloro che lo videro il primo dell’anno 1795, lo trovarono invecchiato, e come roso da un male interno. Rispose appena agli augurî, e tolse l’udienza presto. La notte dell’8 gennaio, circa le tre del mattino, senza che avesse accusato precedentemente alcun male, che anzi aveva tenuto conversazione fin quasi a quattro ore di notte morì improvvisamente. La notizia, diffusasi all’alba con la rapidità del lampo, recò un doloroso stupore nella cittadinanza; e il sospetto che quella morte fosse dovuta a un delitto di Corte trovò largo credito anche negli animi più devoti alla monarchia. Le esequie durarono sette giorni. La salma, esposta dapprima nel palazzo reale, poi ai Cappuccini, fu visitata da tutta la città con sincero cordoglio.
I nobili si offersero di ospitar la spoglia del buon principe nelle loro sepolture gentilizie, finchè la famiglia l’avesse reclamata a Napoli; ma qualche giorno dopo, non se ne parlò che con stupore. Per ordine del governo venivano apposti i suggelli nelle stanze già occupate dal vicerè, e se ne sequestravano le carte. Dall’arcivescovado uscì una voce che cioè si avevano avuto prove di infedeltà e di segreti carteggi coi rivoluzionari di Parigi. Il cadavere rimase negletto e ignorato nel convento dei Cappuccini di Palermo, senza neppure l’onore di una lapide, a vergogna della famiglia e del governo. La stessa giornata della morte, i ministri a consulto avevano affidato il governo a monsignor Lopez, che si era affrettato a prender possesso e a spedire una feluca a Napoli per darne notizia...


Luigi Natoli: Calvello il bastardo. 
Nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1908. 
pagine 856 - Prezzo di copertina € 25, 00
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Copertina di Niccolò Pizzorno. 


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