Il giorno dopo don
Calcedonio uscì di buonora, e si recò al teatrino. Era commosso come se fosse
costretto a strapparsi una costola o meglio il cuore. Guardò tutti i paladini
messi in fila, che lo guardavano alla loro volta con gli occhi spalancati; e
pareva irresoluto se scegliere l’uno o l’altro. Ne giudicava l’armatura, ne
tentava le mosse, ne verificava le vesti. Chi era più bello? Orlando? Rinaldo?
Carlo Magno? Fioravante no; quello gli serviva. Chi scegliere? Avevano tutti
belle armature di nichel con ricami dorati, e sfolgoravano. Egli ne prese
quattro, e li distese sul tavolato, poi su quattro pezzi di carta scrisse quattro
numeri, li attorcigliò, li chiuse nel cappello, li scosse e li buttò in terra.
Raccattò il più lontano; segnava il numero uno; corrispondeva a Carlo Magno.
Trasse un sospiro dal petto: era proprio quello che desiderava. Avvolse il
paladino in giornali, se lo cacciò sotto il soprabito e uscì.
Andò al palazzo del duca
di Terrabruciata, una duchea di recente formazione, il cui proprietario ricco a
milioni aveva fama di essere un raccoglitore di scartoffie, che prendeva per
codici antichi, di marmi tolti a vecchie fontane, che prendeva per greci o
romani, di lame arrugginite che egli credeva scavate nelle terre sacre
dell’antichità. Ma in compenso aveva una buona collezione di bardature, di
stoffe, di strumenti, di cose appartenenti al folclore. Gli mancava un paladino
per avere una collezione completa o quasi.
Don Calcedonio si presentò
al signor duca, e scioltosi il pupo di sotto il soprabito, mostrandolo in tutto
il suo splendore, gli disse:
- Le piace?
- Ehm! non c’è male.
Quanto?
- Non dico, ma la sola
armatura m’è costata circa mille lire.
- Troppo caro!
- Troppo caro!
- Io non ho fatto prezzo;
vossignoria è buon giudice, e io vengo a offrire il mio paladino perché so che
va in cerca di cose caratteristiche di regione…
- Siete contento di
seicento lire?
- Ho detto che faccia
vossignoria.
Don Calcedonio uscì dal
palazzo con seicento lire e con gli occhi umidi di lagrime; e se ne andò
all’ufficio dei piroscafi; poi tornò a casa, e ponendo sulla tavola il
biglietto della cuccetta, disse alla moglie:
- Prepara la roba, che
stasera partirai… Per far questo ho dovuto vendere Carlo Magno.
Gli tremava la bocca
pronunziando queste parole. Donna Concettina, che stava per aprire le labbra
per domandare donde avesse avuto il danaro, vide il tremore, capì, e, senza
dire cosa alcuna, pianse anche lei. Ma don Calcedonio s’impermalì, gridando:
- Ora finiscila!...
Capisci? Finiscila!
La sera andò a riaprire il
teatro. Dopo venti anni, per la prima volta, rientrando in casa, non trovava
nessuno. Aveva accompagnato a bordo la moglie, le aveva insegnato quello che
dovesse fare per prendere il treno, le aveva detto anche di conservare bene il
denaro (il che ella aveva fatto avvolgendo i biglietti in un fazzoletto e
cacciandolo dentro il busto), l’aveva raccomandata a un cameriere di bordo, e
se n’era andato a teatro, dove sarebbe rimasto quella sera più a lungo. Il
sapere Lillì ammalata e gravemente gli aveva cancellata dalla mente ogni
ragione di rancore.
Se ne andò dunque al
teatro, per vedere di dimenticare i nuovi dolori lavorando con le sue
marionette.
Quella sera aveva da
rappresentare le avventure dell’altro figlio di Drusolina. Si sa che Drusolina
andava dietro il leone, il quale non azzannava il piccino, ma lo portava con
riguardo, e pareva volesse insegnare a lei la via da percorrere. Il leone tanto
camminò che giunse dove la Senna si sfocia nel mare; e lì depose il bambino
nella finissima rena, e accocolatosi accanto, parve aspettare. Da questo punto cominciò
Don Calcedonio la sua rappresentazione...
Luigi Natoli: Fioravante e Rizzeri.
Nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1936.
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