mercoledì 27 giugno 2018

Luigi Natoli: La Zisa (El-Aziz). Guglielmo I vede per la prima volta la casa del sogno. Tratto da: Gli ultimi saraceni.


Aveva scelto il sito. 
Un folto bosco di pini e di palme, di querce e di elci, che si alternavano e si confondevano, e pel quale scorreva una sorgente d’acqua chiara e fresca; a occidente della città, men d’un miglio distante, gli era sembrato il più acconcio. Il terreno che gradatamente vi si elevava indicava il sito per la fabbrica. 
Re Guglielmo aveva chiamato architetti e artefici musulmani, e aveva detto loro: 
- Fabbricatemi qui il castello, e che superi in bellezza Menani e la Favara. Io lo chiamerò “il Glorioso” el Aziz
Una folla di operai musulmani e cristiani s’era posta al lavoro, alacremente; e il castello era sorto in breve tempo, alto e robusto; un immenso cubo, fiancheggiato da due torri celle, nelle quali, dentro arcate cieche, si aprivano leggiadre fine strette. Sopra si levavano le cupole, due delle quali, più piccole, coronavano le due torri celle, l’altra più grande e più alta torreggiava in mezzo, sopra la grande terrazza, che alla moda saracena, formava il tetto. 
O indolenza, o desiderio di goder la sorpresa di veder quel suo castello bello e compiuto, come sorto per incantesimo dalle viscere della terra, il re non aveva mai ceduto alle preghiere degli artefici di andar a visitare la fabbrica. 
Ma essa era ormai compiuta: ed egli si recava a vederla. 
Anzi vi si recava a passarvi qualche giorno, queto e lontano dai rumori della reggia. Appunto per questo conduceva con sé la sua favorita con le ancelle, gli eunuchi, i camerari, la sua guardia particolare. Nessuno in quei giorni avrebbe dovuto rischiarsi di molestarlo. Voleva vivere nel sogno. 
E El Aziz era veramente la casa del sogno. 
Un alto e insormontabile muro cingeva il parco intorno al castello; e non vi si entrava che da un cancello irto di punte. La strada, aperta tra il folto degli alberi, sufficiente al passo di tre uomini a cavallo di fronte, serpeggiava, ombrosa e segreta, tra una vegetazione varia che dai verdi teneri o argentei andava ai verdi cupi e ai toni bronzini. Stormi di uccelli, al passar del corteo si levavano e fuggivano con piccoli gridi di paura  e di stupore, via pel folto fogliame impenetrabile, e infondevano un senso di vita alle piante. 
All’ingresso nel parco il re aveva trovato l’architetto e gli artefici principali; e questi ora, camminando accanto alla lettiga regale, andavano fornendo qualche schiarimento e qualche spiegazione, forse per attirare a sé l’attenzione di Guglielmo e serbargli il piacere della sorpresa. 
A un tratto una improvvisa maggior luce colpì gli occhi del re, troncata da un taglio netto; una larga spianata si stendeva, coperta di verde erba minuta. Guglielmo levò gli occhi e mandò un grido di gioia. 
El Aziz sorgeva dinanzi a lui, in fondo a un laghetto, in mezzo al quale, sopra un isolotto sorgeva un chiosco. 
Egli fece fermar la lettiga, e balzò in terra, commosso, appoggiando la mano su la spalla dell’architetto, e si avvicinò alla sponda del lago, nelle cui acque tranquille si rispecchiavano il castello e gli alberi e il chiosco. 
Il castello si staccava nitidamente con la sua tinta color d’oro, sul fondo verde cupo del bosco che si stendeva ai suoi fianchi e alle sue spalle; e dei pini aprivano intorno a lui i loro verdi ombrelli, come per offrire ombre e riposi ai visitatori. 
Si apriva nel mezzo una grande arcata, a sesto acuto, fiancheggiata da due arcate più piccole, e tutte e tre erano chiuse o meglio incorniciate da archi rilevati sul piano, che salivano svelti e leggieri fin su in cima, dove correva una fascia, in giro, incisa a caratteri cufici, in quella scrittura calligrafica ornamentale degli arabi, che pareva da lungi un ricamo bianco sopra una striscia di stoffa rossa. Poche finestre si aprivano sopra gli archi. Il grande arco di mezzo immetteva nell’atrio, sfolgorante di mosaici. 
Il re guardava con crescente stupore. Ed ecco, dall’isolotto staccarsi una barchetta bianca, con la prora alta, che pareva un cigno, un grande e candido cigno; un rematore, puntando un sottile remo nel fondo del laghetto, la spinse verso la sponda. V’eran sul sedile della barchetta dei cuscini di cuoio ricamato d’oro e di seta. 
- Glorioso e grazioso signore e principe potente, – disse l’architetto, – compiaciti di montar nella navicella, che ti condurrà nella tua dimora. 
Guglielmo vi saltò dentro con la vivacità di un fanciullo; e intanto che gli artefici lo vedevano allontanarsi con l’intimo compiacimento della bella opera compiuta, e gli eunuchi, le guardie, i camerari guardavano attoniti, e nelle lettighe chiuse, s’aprivan fra le tende spiragli e apparivano grandi occhi curiosi e ridenti; il re s’accostava all’ampia mole silenziosa, e pensava alle storie dei romanzi che correvano in quei tempi; ai castelli incantati sorgenti in mezzo a boschi incantati; agli atri popolati di gente invisibile e silenziosa, alle ampie scale al cui piede stanno gelosi custodi draghi che vomitano fiamme o giganti formidabili armati di mazze. 
Dall’isolotto al palazzo v’era un ponte. Il re, balzato a terra, corse sul ponte. Non vi era dunque un cavaliere armato, con la spada fatata per contendergli il passo? No; non v’era. Egli era il signore del luogo; era il nume di quel paradiso, era il cavaliere che con cento guardie ne avrebbe difeso l’accesso a ogni profano. 
Entrò solo nell’atrio. L’artefice era rimasto nell’isolotto, perché il re senza esser turbato da alcuno, assaporasse tutta l’incantevole bellezza dell’atrio. 
Era diviso in due da un’altra arcata, sorretta da colonnine svelte sormontate da ricchi capitelli di bianco marmo; le pareti in basso eran coperte di grandi lastre di marmo bianco, percorso da striature a ondante cenerognole, e incorniciate da fasce di musaici, in cui dominavano il porfido e l’oro. Su correva intorno un gran fregio a musaico, sul fondo d’oro, con ornati, fiori e foglie, pavoni dall’ampia coda iridata, arcieri saettanti; particolare pittorico nuovo, dovuto forse ai musaici cristiani, giacchè un musulmano non avrebbe mai rappresentato una figura umana. La fascia larga, vivace, risplendente, rallegrava con i fulgori del’oro la dolce e mite luce che entrava nel secondo atrio. 
Ma la volta era un prodigio. Gli artefici l’avevano imitata da quella della Cappella Palatina, ad alveare, con ornamentazioni geometriche, in toni vivaci, sul fondo d’oro. 
Nelle pareti di fondo, tra cornici marmoree e musaici sgorgava una polla d’acqua, che cadendo con un dolce mormorìo sopra una vasca rettangolare, incavata nel pavimento marmoreo e rivestita di marmo, usciva per un canale, frammezzato da vaschette rettangolari, e metteva nel laghetto o piscina che s’allargava dinanzi al castello. 
Guglielmo si fermò in quell’atrio, dinanzi a quella limpida fonte, la cui acqua veniva a lambirgli i piedi. Il silenzio rallegrato dal tenue canto dell’acqua, la solitudine illuminata da tutti quei bagliori d’oro; un senso di mistero, di quietitudine, una specie di addolcimento dello spirito, un ammollimento dei sensi, una sensazione indefinita, che era stupore, ammirazione, timore, gioia, rapimento, prendevano il re, lo trattenevano lì, immobile, sotto la bella volta dorata, fra gli arcieri saettanti nei musaici e i pavoni azzurri. 
Nessuno lo disturbava: l’acqua gli cantava ai piedi, ed effondeva il suo canto fra gli archi e le pareti marmoree. Pareva al re che improvvisamente, dalla fonte dovesse apparire una fata bionda, con gli occhi ceruli, tutta vestita di bianco; apparire dapprima diafana e trasparente, poi a poco a poco prender corpo, moversi sorridendo, e tramandar luce dagli occhi e dai capelli d’oro. 
Stette un po’ in questo assorbimento, poi lentamente volse alla destra, dove si vedeva biancheggiare la scala, e salì, attraversò una stanza decorata anch’essa di mosaici, col soffitto di legno, entrò in una grande aula, che pareva un tempio; delle colonne in giro sostenevano la cupola che riluceva d’oro; dentro nicchie scavate nelle pareti, e rivestite di mosaici erano alti vasi ornati di iscrizioni. Marmi e mosaici alle pareti, per terra, lucidi, maravigliosi; pareva quasi un delitto ammirarli.
Egli si sentiva compreso di una specie di senso religioso. Il suo rapimento cresceva a mano a mano che percorreva quelle stanze. L’esser solo, aumentava il suo godimento. V’era in quel momento una così gran forza di egoismo nel suo spirito, che avrebbe uccisa anche la sua favorita, se gli si fosse presentata a distoglierlo dalla solitaria ammirazione. 
Egli era il re di quel palazzo incantato; vi entrava pel primo e voleva saziare il suo animo della gioia di quel primo possesso, come giovine sposo che coglie il primo fiore. 
Si affacciò a una finestra, a le spalle del castello. 
Sotto gli occhi suoi si stendeva il parco, del quale non poteva vedere i termini. Si confondeva con la montagna. Pareva un mare qui verde cupo, lì più chiaro e brillante, la varia altezza delle chiome, che ondeggiava lievemente, destava l’idea dell’increspar dei flutti. Lontano si disegnava la linea dei monti e dei colli, da Misilgandone azzurro e vaporoso, al monte Caputo, che si avanzava col dorso curvo tra gli aranceti lontani; e poi Monte Cuccio aguzzo, grande e nudo, triangolo di selce; e ancora Bellolampo, e poi Billieci….
Si affacciò dalla parte del lago. Il suo sguardo lo abbracciava tutto quanto; e vi scorgeva il cielo; pareva che la terra avesse un gran foro, dal quale si vedesse l’altra parte dello spazio infinito. Oltre la sponda, della quale l’erba sapientemente celava l’orlo marmoreo, altri cespugli di rose, di girasoli, di fiori misteriosi che parevano occhi attoniti di quella visione di bellezza. Il chiosco sorgeva sopra una scogliera artificiale; simile a un tempietto; la sua base era avvinta da rose selvatiche. La barca candida pareva dormisse su la pace dell’acqua. 

Luigi Natoli: Gli ultimi saraceni. 
Un inedito di Luigi Natoli pubblicato per la prima ed unica volta a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 05 agosto 1911 e raccolto in unico volume ad opera de I Buoni Cugini editori. 
Prezzo di copertina € 25,00
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