Aveva scelto il sito.
Un folto bosco di pini e di palme, di querce e di elci,
che si alternavano e si confondevano, e pel quale scorreva una sorgente d’acqua
chiara e fresca; a occidente della città, men d’un miglio distante, gli era
sembrato il più acconcio. Il terreno che gradatamente vi si elevava indicava il
sito per la fabbrica.
Re Guglielmo aveva chiamato architetti e artefici
musulmani, e aveva detto loro:
- Fabbricatemi qui il castello, e che superi in bellezza
Menani e la Favara. Io lo chiamerò “il Glorioso” el Aziz .
Una folla di operai musulmani e cristiani s’era posta al
lavoro, alacremente; e il castello era sorto in breve tempo, alto e robusto; un
immenso cubo, fiancheggiato da due torri celle, nelle quali, dentro arcate
cieche, si aprivano leggiadre fine strette. Sopra si levavano le cupole, due
delle quali, più piccole, coronavano le due torri celle, l’altra più grande e
più alta torreggiava in mezzo, sopra la grande terrazza, che alla moda
saracena, formava il tetto.
O indolenza, o desiderio di goder la sorpresa di veder
quel suo castello bello e compiuto, come sorto per incantesimo dalle viscere
della terra, il re non aveva mai ceduto alle preghiere degli artefici di andar
a visitare la fabbrica.
Ma essa era ormai compiuta: ed egli si recava a vederla.
Anzi vi si recava a passarvi qualche giorno, queto e
lontano dai rumori della reggia. Appunto per questo conduceva con sé la sua
favorita con le ancelle, gli eunuchi, i camerari, la sua guardia particolare.
Nessuno in quei giorni avrebbe dovuto rischiarsi di molestarlo. Voleva vivere
nel sogno.
E El Aziz era
veramente la casa del sogno.
Un alto e insormontabile muro cingeva il parco intorno al
castello; e non vi si entrava che da un cancello irto di punte. La strada,
aperta tra il folto degli alberi, sufficiente al passo di tre uomini a cavallo
di fronte, serpeggiava, ombrosa e segreta, tra una vegetazione varia che dai
verdi teneri o argentei andava ai verdi cupi e ai toni bronzini. Stormi di
uccelli, al passar del corteo si levavano e fuggivano con piccoli gridi di
paura e di stupore, via pel folto
fogliame impenetrabile, e infondevano un senso di vita alle piante.
All’ingresso nel parco il re aveva trovato l’architetto e
gli artefici principali; e questi ora, camminando accanto alla lettiga regale,
andavano fornendo qualche schiarimento e qualche spiegazione, forse per
attirare a sé l’attenzione di Guglielmo e serbargli il piacere della sorpresa.
A un tratto una improvvisa maggior luce colpì gli occhi
del re, troncata da un taglio netto; una larga spianata si stendeva, coperta di
verde erba minuta. Guglielmo levò gli occhi e mandò un grido di gioia.
El Aziz sorgeva dinanzi a lui, in fondo a un laghetto, in
mezzo al quale, sopra un isolotto sorgeva un chiosco.
Egli fece fermar la lettiga, e balzò in terra, commosso,
appoggiando la mano su la spalla dell’architetto, e si avvicinò alla sponda del
lago, nelle cui acque tranquille si rispecchiavano il castello e gli alberi e
il chiosco.
Il castello si staccava nitidamente con la sua tinta
color d’oro, sul fondo verde cupo del bosco che si stendeva ai suoi fianchi e
alle sue spalle; e dei pini aprivano intorno a lui i loro verdi ombrelli, come
per offrire ombre e riposi ai visitatori.
Si apriva nel mezzo una grande arcata, a sesto acuto,
fiancheggiata da due arcate più piccole, e tutte e tre erano chiuse o meglio
incorniciate da archi rilevati sul piano, che salivano svelti e leggieri fin su
in cima, dove correva una fascia, in giro, incisa a caratteri cufici, in quella
scrittura calligrafica ornamentale degli arabi, che pareva da lungi un ricamo
bianco sopra una striscia di stoffa rossa. Poche finestre si aprivano sopra gli
archi. Il grande arco di mezzo immetteva nell’atrio, sfolgorante di
mosaici.
Il re guardava con crescente stupore. Ed ecco,
dall’isolotto staccarsi una barchetta bianca, con la prora alta, che pareva un
cigno, un grande e candido cigno; un rematore, puntando un sottile remo nel
fondo del laghetto, la spinse verso la sponda. V’eran sul sedile della
barchetta dei cuscini di cuoio ricamato d’oro e di seta.
- Glorioso e grazioso signore e principe potente, – disse
l’architetto, – compiaciti di montar nella navicella, che ti condurrà nella tua
dimora.
Guglielmo vi saltò dentro con la vivacità di un
fanciullo; e intanto che gli artefici lo vedevano allontanarsi con l’intimo
compiacimento della bella opera compiuta, e gli eunuchi, le guardie, i camerari
guardavano attoniti, e nelle lettighe chiuse, s’aprivan fra le tende spiragli e
apparivano grandi occhi curiosi e ridenti; il re s’accostava all’ampia mole
silenziosa, e pensava alle storie dei romanzi che correvano in quei tempi; ai
castelli incantati sorgenti in mezzo a boschi incantati; agli atri popolati di
gente invisibile e silenziosa, alle ampie scale al cui piede stanno gelosi
custodi draghi che vomitano fiamme o giganti formidabili armati di mazze.
Dall’isolotto al palazzo v’era un ponte. Il re, balzato a
terra, corse sul ponte. Non vi era dunque un cavaliere armato, con la spada
fatata per contendergli il passo? No; non v’era. Egli era il signore del luogo;
era il nume di quel paradiso, era il cavaliere che con cento guardie ne avrebbe
difeso l’accesso a ogni profano.
Entrò solo nell’atrio. L’artefice era rimasto
nell’isolotto, perché il re senza esser turbato da alcuno, assaporasse tutta
l’incantevole bellezza dell’atrio.
Era diviso in due da un’altra arcata, sorretta da
colonnine svelte sormontate da ricchi capitelli di bianco marmo; le pareti in
basso eran coperte di grandi lastre di marmo bianco, percorso da striature a
ondante cenerognole, e incorniciate da fasce di musaici, in cui dominavano il
porfido e l’oro. Su correva intorno un gran fregio a musaico, sul fondo d’oro,
con ornati, fiori e foglie, pavoni dall’ampia coda iridata, arcieri saettanti;
particolare pittorico nuovo, dovuto forse ai musaici cristiani, giacchè un
musulmano non avrebbe mai rappresentato una figura umana. La fascia larga,
vivace, risplendente, rallegrava con i fulgori del’oro la dolce e mite luce che
entrava nel secondo atrio.
Ma la volta era un prodigio. Gli artefici l’avevano
imitata da quella della Cappella Palatina, ad alveare, con ornamentazioni
geometriche, in toni vivaci, sul fondo d’oro.
Nelle pareti di fondo, tra cornici marmoree e musaici
sgorgava una polla d’acqua, che cadendo con un dolce mormorìo sopra una vasca
rettangolare, incavata nel pavimento marmoreo e rivestita di marmo, usciva per
un canale, frammezzato da vaschette rettangolari, e metteva nel laghetto o
piscina che s’allargava dinanzi al castello.
Guglielmo si fermò in quell’atrio, dinanzi a quella
limpida fonte, la cui acqua veniva a lambirgli i piedi. Il silenzio rallegrato
dal tenue canto dell’acqua, la solitudine illuminata da tutti quei bagliori
d’oro; un senso di mistero, di quietitudine, una specie di addolcimento dello
spirito, un ammollimento dei sensi, una sensazione indefinita, che era stupore,
ammirazione, timore, gioia, rapimento, prendevano il re, lo trattenevano lì,
immobile, sotto la bella volta dorata, fra gli arcieri saettanti nei musaici e
i pavoni azzurri.
Nessuno lo disturbava: l’acqua gli cantava ai piedi, ed
effondeva il suo canto fra gli archi e le pareti marmoree. Pareva al re che
improvvisamente, dalla fonte dovesse apparire una fata bionda, con gli occhi
ceruli, tutta vestita di bianco; apparire dapprima diafana e trasparente, poi a
poco a poco prender corpo, moversi sorridendo, e tramandar luce dagli occhi e
dai capelli d’oro.
Stette un po’ in questo assorbimento, poi lentamente
volse alla destra, dove si vedeva biancheggiare la scala, e salì, attraversò
una stanza decorata anch’essa di mosaici, col soffitto di legno, entrò in una
grande aula, che pareva un tempio; delle colonne in giro sostenevano la cupola
che riluceva d’oro; dentro nicchie scavate nelle pareti, e rivestite di mosaici
erano alti vasi ornati di iscrizioni. Marmi e mosaici alle pareti, per terra,
lucidi, maravigliosi; pareva quasi un delitto ammirarli.
Egli si sentiva compreso di una specie di senso
religioso. Il suo rapimento cresceva a mano a mano che percorreva quelle
stanze. L’esser solo, aumentava il suo godimento. V’era in quel momento una
così gran forza di egoismo nel suo spirito, che avrebbe uccisa anche la sua
favorita, se gli si fosse presentata a distoglierlo dalla solitaria
ammirazione.
Egli era il re di quel palazzo incantato; vi entrava pel
primo e voleva saziare il suo animo della gioia di quel primo possesso, come
giovine sposo che coglie il primo fiore.
Si affacciò a una finestra, a le spalle del castello.
Sotto gli occhi suoi si stendeva il parco, del quale non
poteva vedere i termini. Si confondeva con la montagna. Pareva un mare qui
verde cupo, lì più chiaro e brillante, la varia altezza delle chiome, che
ondeggiava lievemente, destava l’idea dell’increspar dei flutti. Lontano si
disegnava la linea dei monti e dei colli, da Misilgandone azzurro e vaporoso,
al monte Caputo, che si avanzava col dorso curvo tra gli aranceti lontani; e
poi Monte Cuccio aguzzo, grande e nudo, triangolo di selce; e ancora
Bellolampo, e poi Billieci….
Si affacciò dalla parte del lago. Il suo sguardo lo
abbracciava tutto quanto; e vi scorgeva il cielo; pareva che la terra avesse un
gran foro, dal quale si vedesse l’altra parte dello spazio infinito. Oltre la
sponda, della quale l’erba sapientemente celava l’orlo marmoreo, altri cespugli
di rose, di girasoli, di fiori misteriosi che parevano occhi attoniti di quella
visione di bellezza. Il chiosco sorgeva sopra una scogliera artificiale; simile
a un tempietto; la sua base era avvinta da rose selvatiche. La barca candida
pareva dormisse su la pace dell’acqua.
Luigi Natoli: Gli ultimi saraceni.
Un inedito di Luigi Natoli pubblicato per la prima ed unica volta a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 05 agosto 1911 e raccolto in unico volume ad opera de I Buoni Cugini editori.
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