giovedì 28 giugno 2018

Luigi Natoli: I "pupi" di don Calcedonio. Tratto da: Fioravante e Rizzeri.


Don Calcedonio, con le mani sotto l’occipite, guardava in alto, e contava i travi del soffitto. Era una cosa abituale in lui; non già che lo facesse di proposito, ma appena si sdraiava supino con gli occhi in su, subitamente si metteva a contare i travi del soffitto. Quella mattina aveva lucidato l’armatura di Fioravante; elmo, corazza, schienali, bracciali e cosciali di nichel, rabescati d’ottone dorato, risplendevano come argento e oro. Fioravante era disteso su un’altra panca, i tre fili di ferro che gli reggevano il capo e le braccia, congiunti insieme, gli davano una posa da guerriero aspettante; la visiera alzata gli scopriva il viso immobile con gli occhi fissi; la veste, corta al ginocchio, verde, color della speranza, ornata di tre file di passamani d’oro, gli pendeva in pieghe simmetriche; e la spada, la terribile Durlindana, che poi avrebbe ereditato Orlando, gli giaceva al fianco. Oh, era un bel paladino Fioravante. Tutta la mattina don Calcedonio l’aveva occupata con lui. Non conosceva risparmio per i paladini; egli vi spendeva anche più che non potessero le sue forze; alcune armature gli costavano fino a cinquecento lire: quella di Orlando per esempio, tutta dorata, con i gomiti, le spallacce, le ginocchiere che parevano argento, e lo scudo con la croce d’oro, che rifulgeva come un sole. Ma Orlando era il paladino maggiore, e conveniva vestirlo meglio degli altri; la sua veste bianca pareva intessuta di gigli e i ricami parevano una pioggia di botton d’oro. Peccato, che avesse gli occhi storti!
Ma don Calcedonio non pensava a lui. Pur continuando a contare le travi del soffitto, la sua mente era piena di Fioravante e di Mambrino, del quale aveva nella mattinata ripulito l’armatura. Questa era diversa da quella di Fioravante, perché Mambrino era saraceno, e i saraceni, si sa, vanno vestiti diversamente. Hanno l’elmo senza visiera, con un turbante attorcigliato e una specie di chiodo in cima, donde scaturiscono le piume. E hanno le brache corte fino al ginocchio, e la scimitarra.
Veramente i romanzi di cavalleria che egli leggeva, dicevano che i guerrieri saraceni erano vestiti come i cristiani; le stesse armature, come lo stesso linguaggio cavalleresco, gli stessi usi; la differenza era che i cristiani giuravano per Gesù e per la Vergine Maria, i saraceni per Macone, Maometto, Apolline, Belial. Ma don Calcedonio vestiva i cavalieri cristiani come i giostranti del secolo XVI, e i saraceni come i turchi dei secoli posteriori. Era tutt’uno per lui!
Aveva ripulita la corazza di Finaù, figlio del re Balante, che regnava in Scondia; una bell’armatura, tersa e lucente, che faceva abbagliare a mirarla, con un sole raggiante in mezzo, e l’elmo sormontato da una pennacchiera rossa, che ondeggiava al minimo movimento. 
Quella sera Fioravante avrebbe combattuto Finaù; era un duello mortale; si sapeva che Finaù sarebbe stato ucciso, nondimeno il duello si presentava agli spettatori dubbio, nonostante fossero in due a combatterlo, Fioravante e Tibaldo di Lima. L’armatura di questo cavaliere era già pronta dal giorno innanzi. Era di ottone, e pareva d’oro, ma rimaneva di minor valore di quella di Fioravante; anche il gonnellino non aveva i ricami di quello; era pavonazzo, filettato di oro. 
Don Calcedonio teneva gli occhi al soffitto, ma la sua mente si perdeva dietro ai paladini; correva dietro a loro e studiava le parole più sonanti e i gesti più appropriati. Dove li metterebbe? Fioravante a destra, Finaù a sinistra, Tibaldo in mezzo. Combattevano. Ta ta tata, ta ta tata, ta ta tata, ta ta ta, ta a a a. Don Calcedonio a poco a poco si addormentò, e nel sonno continuava il combattimento. I pupi erano sul palcoscenico illuminato; la scena rappresentava una boscaglia, nella quale erano schierati gli eserciti, da una parte cristiani dall’altra saraceni. Folla. Erano vestiti poveramente, elmi e turbanti, e in mano avevano la lancia. Stavano immobili; poi i saraceni sarebbero fuggiti, e le lancie e le spade ne avrebbero fatto scempio. 



Luigi Natoli: Fioravante e Rizzeri. 
Nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1936. 
Prezzo di copertina € 19,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

Luigi Natoli: Don Calcedonio vende Carlo Magno. Tratto da: Fioravante e Rizzeri.


Il giorno dopo don Calcedonio uscì di buonora, e si recò al teatrino. Era commosso come se fosse costretto a strapparsi una costola o meglio il cuore. Guardò tutti i paladini messi in fila, che lo guardavano alla loro volta con gli occhi spalancati; e pareva irresoluto se scegliere l’uno o l’altro. Ne giudicava l’armatura, ne tentava le mosse, ne verificava le vesti. Chi era più bello? Orlando? Rinaldo? Carlo Magno? Fioravante no; quello gli serviva. Chi scegliere? Avevano tutti belle armature di nichel con ricami dorati, e sfolgoravano. Egli ne prese quattro, e li distese sul tavolato, poi su quattro pezzi di carta scrisse quattro numeri, li attorcigliò, li chiuse nel cappello, li scosse e li buttò in terra. Raccattò il più lontano; segnava il numero uno; corrispondeva a Carlo Magno. Trasse un sospiro dal petto: era proprio quello che desiderava. Avvolse il paladino in giornali, se lo cacciò sotto il soprabito e uscì. 
Andò al palazzo del duca di Terrabruciata, una duchea di recente formazione, il cui proprietario ricco a milioni aveva fama di essere un raccoglitore di scartoffie, che prendeva per codici antichi, di marmi tolti a vecchie fontane, che prendeva per greci o romani, di lame arrugginite che egli credeva scavate nelle terre sacre dell’antichità. Ma in compenso aveva una buona collezione di bardature, di stoffe, di strumenti, di cose appartenenti al folclore. Gli mancava un paladino per avere una collezione completa o quasi.
Don Calcedonio si presentò al signor duca, e scioltosi il pupo di sotto il soprabito, mostrandolo in tutto il suo splendore, gli disse: 
- Le piace?
- Ehm! non c’è male. Quanto?
- Non dico, ma la sola armatura m’è costata circa mille lire. 
- Troppo caro! 
- Io non ho fatto prezzo; vossignoria è buon giudice, e io vengo a offrire il mio paladino perché so che va in cerca di cose caratteristiche di regione…
- Siete contento di seicento lire?
- Ho detto che faccia vossignoria.
Don Calcedonio uscì dal palazzo con seicento lire e con gli occhi umidi di lagrime; e se ne andò all’ufficio dei piroscafi; poi tornò a casa, e ponendo sulla tavola il biglietto della cuccetta, disse alla moglie: 
- Prepara la roba, che stasera partirai… Per far questo ho dovuto vendere Carlo Magno. 
Gli tremava la bocca pronunziando queste parole. Donna Concettina, che stava per aprire le labbra per domandare donde avesse avuto il danaro, vide il tremore, capì, e, senza dire cosa alcuna, pianse anche lei. Ma don Calcedonio s’impermalì, gridando: 
- Ora finiscila!... Capisci? Finiscila! 
La sera andò a riaprire il teatro. Dopo venti anni, per la prima volta, rientrando in casa, non trovava nessuno. Aveva accompagnato a bordo la moglie, le aveva insegnato quello che dovesse fare per prendere il treno, le aveva detto anche di conservare bene il denaro (il che ella aveva fatto avvolgendo i biglietti in un fazzoletto e cacciandolo dentro il busto), l’aveva raccomandata a un cameriere di bordo, e se n’era andato a teatro, dove sarebbe rimasto quella sera più a lungo. Il sapere Lillì ammalata e gravemente gli aveva cancellata dalla mente ogni ragione di rancore. 
Se ne andò dunque al teatro, per vedere di dimenticare i nuovi dolori lavorando con le sue marionette. 
Quella sera aveva da rappresentare le avventure dell’altro figlio di Drusolina. Si sa che Drusolina andava dietro il leone, il quale non azzannava il piccino, ma lo portava con riguardo, e pareva volesse insegnare a lei la via da percorrere. Il leone tanto camminò che giunse dove la Senna si sfocia nel mare; e lì depose il bambino nella finissima rena, e accocolatosi accanto, parve aspettare. Da questo punto cominciò Don Calcedonio la sua rappresentazione...



Luigi Natoli: Fioravante e Rizzeri. 
Nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1936. 
Prezzo di copertina € 19,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
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mercoledì 27 giugno 2018

Luigi Natoli: Guglielmo I fa uccidere Ibu-Hamil, architetto de La Zisa. - Tratto da: Gli ultimi saraceni


Guglielmo tacque; parve che un improvviso pensiero gli sorgesse nella mente, e lo agitasse; la sua fronte si corrugò, le sue mascelle si serrarono, le sua nari si dilatarono, una espressione di sospetto e d’ira. 
Si alzò a un tratto, e chiamò: 
- Sinam! Sinam! 
Diha lo guardava con malcelato spavento. 
Un eunuco apparve. 
- Va a chiamarmi subito Ibu-Hamil.
L’eunuco partì rapidamente come comportava la sua floscia pinguedine. 
Poco dopo l’artefice del castello accorse, col volto raggiante, indovinando che il re voleva dargli un guiderdone per la nobile opera fatta, e si inchinò, con le mani sul petto, mormorando:
- Giusto e glorioso principe e leone del paese dei Rumi, la mia anima e il mio corpo, come due bovi aggiogati, sono pronti a fare il voler tuo...
Ma il re con voce terribile, gli disse: 
- Alzati, e rispondi. 
Ibu-Hamil guardò il re con volto atterrito e stupefatto. 
Guglielmo gli domandò: 
- Sei tu capace di costruire un altro castello simile a questo, per magnificenza e bellezza di sito e di ornati?
Ibu-Hamil rispose con enfasi: 
- Se tu lo comandi, sì; e con l’aiuto di Allah, anche più bello! Non può forse un padre aver figli più belli del primo?
- Ah sì? – gridò Guglielmo con un impeto di furore; – tu puoi dunque oscurar la bellezza di el Aziz? Ebbene, tu non costruirai più alcun castello... Sinam! Sinam! 
L’eunuco apparve un’altra volta. 
- Conduci Ibu-Hamil, conducilo nel vestibolo, dinanzi la fontana e troncagli il capo, e seppelliscilo, lì; egli ha edificato, e nulla più dovrà edificare. L’anima sua, rimarrà eternamente ligata all’opera sua. Va!...
Ibu-Hamil pallido, piangente più pel dolore di quella che gli pareva ingratitudine che per la morte, porgendo le mani, gridò: 
- Oh signore, perché mi punisci? E che ti ho fatto?...
Diha, atterrita, tremante, gemette anche lei: 
- Signore e padrone!...
Ma Guglielmo le piantò addosso gli occhi ferocissimi; ed ella abbassò i suoi e li nascose fra le palme delle mani; egli stese il braccio imperiosamente; e Sinam, afferrato Ibu-Hamil e sollevatolo fra le braccia, lo portò via dicendo: 
- Di che piangi? Questo è il volere di Allah!... Andiamo: non ti farò soffrire. 
Guglielmo li seguì con lo sguardo, poi tese l’orecchio, corse alla finestra, guardò giù, vide dinanzi il grande arco un movimento di gente sbalordita, poi sentì levarsi un mormorìo di pietà, e allora ritornò a sdraiarsi sopra i cuscini, e disse soddisfatto: 
- Ora nessuno potrà avere un castello più bello di questo!

***


La piccola Diha era felice in quel lembo di paradiso, che aveva la vegetazione lus­sureggiante delle oasi native.
Il terrore della morte di Ibu-Hamil era svanito sotto il sovrapporsi di nuove sensa­zioni, e tra le carezze impetuose del re. Pure, tutte le volte che scendeva nell'atrio pro­vava una paura superstiziosa, pensando che sotto quell'acqua limpida e serena, dormisse il sonno eterno il povero artefice; e le pareva che il mormorìo della fonte fosse il la­mentar  sommesso dell’anima imprigionata nell'opera sua.
A poco a poco anche questa paura s'andò spegnendo; non le rimase che una vaga e lieve soggezione; alla quale però non era estraneo quel non so che di misterioso che respirava l’atrio silenzioso e solitario.
Guglielmo non era rimasto più di tre giorni in quell'asilo di pace. Pareva roso da un segreto fastidio di tutte le cose; e forse in quel senso di fastidio si accorse che non facevan più conto di lui. Nè il grande Almirante, né il Protonotaro, nè il grande Giu­stiziere, nessuno dei grandi ufficiali del regno era venuto a domandargli un ordine.
Egli dimenticava lo stato e le cure che gli doveva, quando si trovava in corte, e in con­tatto immediato coi ministri, che naturalmente gli domandavano o ne sollecitavano gli ordini; ma lontano, nel silenzio di quel castello e del parco, la solitudine gli parve abbandono, e l'abbandono menomazione della sua autorità.




Luigi Natoli: Gli ultimi saraceni. 
Un inedito di Luigi Natoli pubblicato per la prima ed unica volta a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 05 agosto 1911. 
Prezzo di copertina € 25,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 


Luigi Natoli: La Zisa (El-Aziz). Guglielmo I vede per la prima volta la casa del sogno. Tratto da: Gli ultimi saraceni.


Aveva scelto il sito. 
Un folto bosco di pini e di palme, di querce e di elci, che si alternavano e si confondevano, e pel quale scorreva una sorgente d’acqua chiara e fresca; a occidente della città, men d’un miglio distante, gli era sembrato il più acconcio. Il terreno che gradatamente vi si elevava indicava il sito per la fabbrica. 
Re Guglielmo aveva chiamato architetti e artefici musulmani, e aveva detto loro: 
- Fabbricatemi qui il castello, e che superi in bellezza Menani e la Favara. Io lo chiamerò “il Glorioso” el Aziz
Una folla di operai musulmani e cristiani s’era posta al lavoro, alacremente; e il castello era sorto in breve tempo, alto e robusto; un immenso cubo, fiancheggiato da due torri celle, nelle quali, dentro arcate cieche, si aprivano leggiadre fine strette. Sopra si levavano le cupole, due delle quali, più piccole, coronavano le due torri celle, l’altra più grande e più alta torreggiava in mezzo, sopra la grande terrazza, che alla moda saracena, formava il tetto. 
O indolenza, o desiderio di goder la sorpresa di veder quel suo castello bello e compiuto, come sorto per incantesimo dalle viscere della terra, il re non aveva mai ceduto alle preghiere degli artefici di andar a visitare la fabbrica. 
Ma essa era ormai compiuta: ed egli si recava a vederla. 
Anzi vi si recava a passarvi qualche giorno, queto e lontano dai rumori della reggia. Appunto per questo conduceva con sé la sua favorita con le ancelle, gli eunuchi, i camerari, la sua guardia particolare. Nessuno in quei giorni avrebbe dovuto rischiarsi di molestarlo. Voleva vivere nel sogno. 
E El Aziz era veramente la casa del sogno. 
Un alto e insormontabile muro cingeva il parco intorno al castello; e non vi si entrava che da un cancello irto di punte. La strada, aperta tra il folto degli alberi, sufficiente al passo di tre uomini a cavallo di fronte, serpeggiava, ombrosa e segreta, tra una vegetazione varia che dai verdi teneri o argentei andava ai verdi cupi e ai toni bronzini. Stormi di uccelli, al passar del corteo si levavano e fuggivano con piccoli gridi di paura  e di stupore, via pel folto fogliame impenetrabile, e infondevano un senso di vita alle piante. 
All’ingresso nel parco il re aveva trovato l’architetto e gli artefici principali; e questi ora, camminando accanto alla lettiga regale, andavano fornendo qualche schiarimento e qualche spiegazione, forse per attirare a sé l’attenzione di Guglielmo e serbargli il piacere della sorpresa. 
A un tratto una improvvisa maggior luce colpì gli occhi del re, troncata da un taglio netto; una larga spianata si stendeva, coperta di verde erba minuta. Guglielmo levò gli occhi e mandò un grido di gioia. 
El Aziz sorgeva dinanzi a lui, in fondo a un laghetto, in mezzo al quale, sopra un isolotto sorgeva un chiosco. 
Egli fece fermar la lettiga, e balzò in terra, commosso, appoggiando la mano su la spalla dell’architetto, e si avvicinò alla sponda del lago, nelle cui acque tranquille si rispecchiavano il castello e gli alberi e il chiosco. 
Il castello si staccava nitidamente con la sua tinta color d’oro, sul fondo verde cupo del bosco che si stendeva ai suoi fianchi e alle sue spalle; e dei pini aprivano intorno a lui i loro verdi ombrelli, come per offrire ombre e riposi ai visitatori. 
Si apriva nel mezzo una grande arcata, a sesto acuto, fiancheggiata da due arcate più piccole, e tutte e tre erano chiuse o meglio incorniciate da archi rilevati sul piano, che salivano svelti e leggieri fin su in cima, dove correva una fascia, in giro, incisa a caratteri cufici, in quella scrittura calligrafica ornamentale degli arabi, che pareva da lungi un ricamo bianco sopra una striscia di stoffa rossa. Poche finestre si aprivano sopra gli archi. Il grande arco di mezzo immetteva nell’atrio, sfolgorante di mosaici. 
Il re guardava con crescente stupore. Ed ecco, dall’isolotto staccarsi una barchetta bianca, con la prora alta, che pareva un cigno, un grande e candido cigno; un rematore, puntando un sottile remo nel fondo del laghetto, la spinse verso la sponda. V’eran sul sedile della barchetta dei cuscini di cuoio ricamato d’oro e di seta. 
- Glorioso e grazioso signore e principe potente, – disse l’architetto, – compiaciti di montar nella navicella, che ti condurrà nella tua dimora. 
Guglielmo vi saltò dentro con la vivacità di un fanciullo; e intanto che gli artefici lo vedevano allontanarsi con l’intimo compiacimento della bella opera compiuta, e gli eunuchi, le guardie, i camerari guardavano attoniti, e nelle lettighe chiuse, s’aprivan fra le tende spiragli e apparivano grandi occhi curiosi e ridenti; il re s’accostava all’ampia mole silenziosa, e pensava alle storie dei romanzi che correvano in quei tempi; ai castelli incantati sorgenti in mezzo a boschi incantati; agli atri popolati di gente invisibile e silenziosa, alle ampie scale al cui piede stanno gelosi custodi draghi che vomitano fiamme o giganti formidabili armati di mazze. 
Dall’isolotto al palazzo v’era un ponte. Il re, balzato a terra, corse sul ponte. Non vi era dunque un cavaliere armato, con la spada fatata per contendergli il passo? No; non v’era. Egli era il signore del luogo; era il nume di quel paradiso, era il cavaliere che con cento guardie ne avrebbe difeso l’accesso a ogni profano. 
Entrò solo nell’atrio. L’artefice era rimasto nell’isolotto, perché il re senza esser turbato da alcuno, assaporasse tutta l’incantevole bellezza dell’atrio. 
Era diviso in due da un’altra arcata, sorretta da colonnine svelte sormontate da ricchi capitelli di bianco marmo; le pareti in basso eran coperte di grandi lastre di marmo bianco, percorso da striature a ondante cenerognole, e incorniciate da fasce di musaici, in cui dominavano il porfido e l’oro. Su correva intorno un gran fregio a musaico, sul fondo d’oro, con ornati, fiori e foglie, pavoni dall’ampia coda iridata, arcieri saettanti; particolare pittorico nuovo, dovuto forse ai musaici cristiani, giacchè un musulmano non avrebbe mai rappresentato una figura umana. La fascia larga, vivace, risplendente, rallegrava con i fulgori del’oro la dolce e mite luce che entrava nel secondo atrio. 
Ma la volta era un prodigio. Gli artefici l’avevano imitata da quella della Cappella Palatina, ad alveare, con ornamentazioni geometriche, in toni vivaci, sul fondo d’oro. 
Nelle pareti di fondo, tra cornici marmoree e musaici sgorgava una polla d’acqua, che cadendo con un dolce mormorìo sopra una vasca rettangolare, incavata nel pavimento marmoreo e rivestita di marmo, usciva per un canale, frammezzato da vaschette rettangolari, e metteva nel laghetto o piscina che s’allargava dinanzi al castello. 
Guglielmo si fermò in quell’atrio, dinanzi a quella limpida fonte, la cui acqua veniva a lambirgli i piedi. Il silenzio rallegrato dal tenue canto dell’acqua, la solitudine illuminata da tutti quei bagliori d’oro; un senso di mistero, di quietitudine, una specie di addolcimento dello spirito, un ammollimento dei sensi, una sensazione indefinita, che era stupore, ammirazione, timore, gioia, rapimento, prendevano il re, lo trattenevano lì, immobile, sotto la bella volta dorata, fra gli arcieri saettanti nei musaici e i pavoni azzurri. 
Nessuno lo disturbava: l’acqua gli cantava ai piedi, ed effondeva il suo canto fra gli archi e le pareti marmoree. Pareva al re che improvvisamente, dalla fonte dovesse apparire una fata bionda, con gli occhi ceruli, tutta vestita di bianco; apparire dapprima diafana e trasparente, poi a poco a poco prender corpo, moversi sorridendo, e tramandar luce dagli occhi e dai capelli d’oro. 
Stette un po’ in questo assorbimento, poi lentamente volse alla destra, dove si vedeva biancheggiare la scala, e salì, attraversò una stanza decorata anch’essa di mosaici, col soffitto di legno, entrò in una grande aula, che pareva un tempio; delle colonne in giro sostenevano la cupola che riluceva d’oro; dentro nicchie scavate nelle pareti, e rivestite di mosaici erano alti vasi ornati di iscrizioni. Marmi e mosaici alle pareti, per terra, lucidi, maravigliosi; pareva quasi un delitto ammirarli.
Egli si sentiva compreso di una specie di senso religioso. Il suo rapimento cresceva a mano a mano che percorreva quelle stanze. L’esser solo, aumentava il suo godimento. V’era in quel momento una così gran forza di egoismo nel suo spirito, che avrebbe uccisa anche la sua favorita, se gli si fosse presentata a distoglierlo dalla solitaria ammirazione. 
Egli era il re di quel palazzo incantato; vi entrava pel primo e voleva saziare il suo animo della gioia di quel primo possesso, come giovine sposo che coglie il primo fiore. 
Si affacciò a una finestra, a le spalle del castello. 
Sotto gli occhi suoi si stendeva il parco, del quale non poteva vedere i termini. Si confondeva con la montagna. Pareva un mare qui verde cupo, lì più chiaro e brillante, la varia altezza delle chiome, che ondeggiava lievemente, destava l’idea dell’increspar dei flutti. Lontano si disegnava la linea dei monti e dei colli, da Misilgandone azzurro e vaporoso, al monte Caputo, che si avanzava col dorso curvo tra gli aranceti lontani; e poi Monte Cuccio aguzzo, grande e nudo, triangolo di selce; e ancora Bellolampo, e poi Billieci….
Si affacciò dalla parte del lago. Il suo sguardo lo abbracciava tutto quanto; e vi scorgeva il cielo; pareva che la terra avesse un gran foro, dal quale si vedesse l’altra parte dello spazio infinito. Oltre la sponda, della quale l’erba sapientemente celava l’orlo marmoreo, altri cespugli di rose, di girasoli, di fiori misteriosi che parevano occhi attoniti di quella visione di bellezza. Il chiosco sorgeva sopra una scogliera artificiale; simile a un tempietto; la sua base era avvinta da rose selvatiche. La barca candida pareva dormisse su la pace dell’acqua. 

Luigi Natoli: Gli ultimi saraceni. 
Un inedito di Luigi Natoli pubblicato per la prima ed unica volta a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 05 agosto 1911 e raccolto in unico volume ad opera de I Buoni Cugini editori. 
Prezzo di copertina € 25,00
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mercoledì 20 giugno 2018

Luigi Natoli: I banditi Vincenzo Agnello e Gian Giorgio Lancia - Tratto da Storie di Banditi, prefazione al romanzo Pasquale Bruno di Alexandre Dumas

Le due bande che nel secolo XVI ebbero rinomanza furono quella di Vincenzo Agnello, durante il viceregno del duca di Medinaceli, e quella di Giovan Giorgio Lancia, durante il viceregno del conte d’Olivares.
La banda di Vincenzo Agnello era forte di quaranta cavalli, aveva i suoi trombetti e uno stendardo sul quale era dipinta la Morte. Capo era l’Agnello, caporale un Gregorio La Russa, che il cavalier Di Giovanni dice “il più bell’uomo che avesse fatto la natura e di estremo valore”.
Vincenzo Agnello era valorosissimo, e aveva tanta superba coscienza di sé, che, piuttosto che scanzarli andava incontro ai cavalleggieri e alle compagnie spedite contro di lui, le assaliva e le sbaragliava. Usava spesso uno stratagemma per attirare i capitan d’arme in un luogo, dove egli era appostato. Offeso da un cavaliere di casa d’Affletto, ebbe l’audacia di venire, col proposito di entrare in città e ucciderlo: e per impedirglielo dovette uscirgli contro tutta la cavalleria che era in Palermo. Il suo nome bastava per mettere in fuga le squadre della giustizia: “Egli – assicura il Di Giovanni – non rubava, ma faceva biglietti a persone ricche, delle quali n’aveva tutto quel che voleva. Non rubava ai viandanti, ed ai poveri dava del suo”. Saputo che alcuni rubavano in suo nome la povera gente, li ricercò, li prese e li impiccò nei luoghi stessi dove avevano rubato.
Una volta, andando il Vicerè pel regno, Vincenzo Agnello gli si fece trovare sopra un colle, coi suoi quaranta schierati, lo stendardo spiegato, le trombe squillanti. Quest’ardimento mandò in collera sua eccellenza, che subito ordinò ai quattro più valorosi capitan d’arme, Dell’Aquila, Figuerva, Villafrades e Frisone di dar la caccia al bandito.
Anche qui entra l’amore. Passando sotto Sutera, un giorno del 1557 vide alcune donne che lavavano al fiume, e tra esse una schiava bellissima. La prese, la caricò sul suo cavallo e la portò via. Ne fece la sua amante. E s’obbliò.
Quando il capitan Frisone fu lanciato sulle piste di lui, lo sorprese. Il bandito ebbe appena il tempo di ordinare la difesa, per morire valorosamente. Fallitegli le pistole, si gittò addosso al capitano con la spada, ma un compagno d’arme lo colpì alla testa di dietro, col calcio del fucile, e l’atterrò. La sua banda fu sbaragliata: i superstiti si raccolsero intorno al La Russa; ma indi a poco caddero con un tranello nelle mani del capitan Villafrades, e furono tutti giustiziati.
Giovan Giorgio Lancia, plebeo di Randazzo, giunse a raccogliere sotto i suoi ordini, una banda di duecento uomini: una vera compagnia di ventura, con la quale percorreva senza paura il regno, taglieggiando i feudatari, e sconfiggendo le compagnie d’arme mandategli contro. Egli non fu vittima dell’amore, ma della sua stessa presunzione.
Una volta egli entrò negli stati del principe di Paternò, don Francesco Moncada, spadroneggiandovi: i villani rispettosamente, gli fecero osservare che il principe era signore assai potente, ma egli ne rise, e disse cose tali di don Francesco, che questi saputele, se ne risentì, e giurò di esterminarlo. Fattosi nominare Vicario pel vallo Demone, spinse contro il bandito tutti i capitani delle terre demaniali e delle baronie, accozzò un vero esercito, e cominciò una guerra di scaramucce, rappresaglie, violenze. Ma i capitani avevano la peggio, e allora il principe scese in campo.
Giovan Giorgio si trovò stretto da ogni parte: molti dei suoi più valorosi compagni l’abbandonarono; egli trovò uno scampo nella fuga. Riuscì a recarsi a Napoli con l’intenzione di ricoverare in Firenze; ma al ponte della Maddalena s’incontrò in due compagni del bargello, che erano stati banditi con lui; i quali capirono che Giovan Giorgio Lancia era una buona preda. Simularono liete accoglienze, cercarono di prenderlo in mezzo: egli, più furbo lesse nei loro occhi il disegno; e tolto a un d’essi l’archibugio, fingendo di visitarlo, a un tratto, uccise il compagno e si diede a fuggire. Corse fino a Somma, dove riparò in casa di un suo vecchio amico, cavaliere di Malta, al quale si confidò; e il cavaliere di Malta lo consegnò a tradimento alla giustizia, ben inteso che prima lo alleggerì di molte polizze di cambio e di molti zecchini che il bandito aveva addosso.
Trasportato a Messina fu condannato a essere squartato vivo da quattro galere.
Anche i suoi compagni finirono tra pene che fanno inorridire. Il nobile principe faceva con grande sforzo piegare l’una contro l’altra, fino a toccarsi le cime di due alberi: legava il bandito pei piedi ai due alberi, poi faceva tralasciare le cime, che staccandosi furiosamente, squarciavano e stoppavano il miserando corpo in due orribili e sanguinosi avanzi. 


Luigi Natoli: Storie di Banditi. Prefazione a: Pasquale Bruno di Alexandre Dumas. 
Prezzo di copertina € 13,50
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

Luigi Natoli: Storie di banditi. Tratto dalla prefazione di: Pasquale Bruno di Alexandre Dumas

Quando ancora la città nostra conservava la sua cinta muraria, sulla porta di San Giorgio biancheggiavano dentro una gabbia alcuni teschi. L’erba inghirlandava quei miserandi avanzi: e lo storico La Farina, riconoscendo in essi i teschi dei Carbonari moschettati dal Borbone nel 1831, con un bel periodo li indicava alla pietà e al sentimento dei cittadini. Il periodo fece fortuna; e fino ad alcuni anni or sono, le ghirlande d’edera e le viole a ciocche sui mozzi teschi servivano come certe battute d’effetto in quei drammi sensazionali che piacevano tanto ai pubblici delle arene.
Ma la critica, vecchia pettegola, ha distrutto la pia leggenda patriottica: i teschi erano quelli di alcuni banditi, esposti nella gabbia per terrore della gente.
La giustizia criminale, perdurata fra noi fino a qualche anno del sec. XIX amava gli spettacoli; e non solamente moltiplicava e variava con una raffinatezza feroce e anche patologica le forme dei supplizii, ma non dava pace alla morte, prolungando e straziando i cadaveri dei giustiziati.
Allo Sperone, sullo stradale che conduce a Palermo, v’era una forca con uncini di ferro, che serviva di “pianca di carne umana”; ed ivi il viaggiatore del secolo XVIII vedeva pendere sanguinanti le membra dei banditi squartati per ordine della Giustizia: e i cranii andavano a popolare le gabbie sulle porte della città, quando non erano spediti nei paesi di origine dei malfattori, per essere esposti in quelle gabbie.
L’uso di questa lugubre esposizione era antica, e non era limitato agli “scorridori di campagna” e ai banditi; si estendeva anche ai rei di delitti di ribellione: come il Chiaramonte, il conte di Cammarata, ai ladri del pubblico denaro, come il tesoriere Gavì. Ma i teschi di costoro si affiggevano nei palazzi del Fisco, o nei muri del palazzo pretorio: quelli dei banditi e degli “scorridori” ornavano tristemente le porte della città, o le mura dei castelli feudali.
C’era una differenza tra i banditi e gli scorridori: questi erano ladroni, che assalivano i viandanti, quelli erano fuori bando per qualche vendetta; questi era raro che avessero un lampo di generosità, quelli erano d’ordinario generosi e cavallereschi, la condizione di perseguitati dalla giustizia li faceva malfattori; ma il coraggio di cui davano prova, li circondava di poesia. Essi rampollavano per origine dagli antichi cavalieri erranti, o dai nobili, che non erano altro che ladroni, o dei condottieri di compagnie di ventura. Una vendetta contro i baroni li faceva banditi: la poesia popolare, fedele specchio dei sentimenti plebei, s’impadroniva di loro e magnificando il loro gesto, sfogava il suo odio contro i baroni…



Luigi Natoli: Storie di Banditi. Prefazione al romanzo storico siciliano: Pasquale Bruno di Alexandre Dumas. 
Prezzo di copertina € 13,50 
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

lunedì 18 giugno 2018

Luigi Natoli: il teatro Bellini nel 1775 e la compagnia dei comici - Tratto da: Ferrazzano.

Era questo detto dei Travaglini o più modernamente dal nome del proprietario, di S. Lucia; dove recitavano le compagnie dei comici; e che poi rifatto, abbellito e prevalso il secondo nome, si adattò a teatro d’opera, rivaleggiando con quello più grande dei musici detto di S. Cecilia; finchè ingrandito prese il nome di Carolino; e fu il solo e glorioso teatro d’opera di Palermo, anche quando, mutato il regime, fu intitolato al nome imperituro di Bellini. Allora, nel 1775, era un piccolo teatro che di fuori non annunziava punto che nascondesse una sala da spettacoli. Una tettoia difendeva la porta sulla quale una tabella di legno portava dipinto lo scritto: “Teatro di Travaglini”; un corridoio senza luce, umido, con le pareti grommose, conduceva all’ingresso del teatro, in fondo a un breve spazio. Una sala capace di trecento persone e tre file di palchi; non vi erano poltrone, che allora non si usavano, ma sedie numerate; una grande lumiera pendeva dal soffitto. Di giorno bisognava abituarsi al buio per potersi movere e non inciampare in qualche sedia, ma di sera si illuminava e si vedeva bene la fioritura delle belle vesti e la bianchezza delle carni sull’addobbatura rosso cupo dei palchetti. L’illuminazione era a cera nella lumiera e nei trionfi dei palchetti, ad olio sul palcoscenico. Il quale era piuttosto angusto; aveva in giro gli stanzini degli attori, piccoli e malmessi, alcuni, invece di porta, erano difesi da una tendina; gli uomini stavano da una parte in tre stanzini comuni, le donne in due, pochi stanzini erano privilegiati. L’attrezzatura si componeva di tre o quattro scene con le rispettive quinte; le scene erano arrotolate in alto e trattenute da corde che penzolavano da un lato.
In quel tempo vi agiva una compagnia condotta da un siciliano, che godeva grande opinione di buon attore, e recitava nelle parti di padre nobile: si chiamava Domenico Minniti, era nato per così dire in teatro, perché era figlio di comici. I suoi attori erano siciliani, ma il “Tiranno” e la moglie erano napoletani, Antonio Zardo e Giuliana Buzelle, che in arte recitava da Beatrice. Era quasi tutta una famiglia, chè fra loro erano imparentati: padri, madri e figli recitavano o prendevano parte della compagnia come attrezzisti o trovarobe. Ma Floristella no; era una trovatella o per essere più esatti, una figlia dell’arte trovata in un angolo della porta di casa di Ferrazzano una sera al ritorno dal teatro.



Luigi Natoli: Ferrazzano. 
Nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 31 ottobre 1932. 
Prezzo di copertina € 19,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

Luigi Natoli: il palazzo del conte di Geraci e la nobiltà palermitana del 1700 - Tratto da: Ferrazzano.

C’era una grande conversazione in casa della marchesa di Geraci. Il palazzo sorgeva nel Cassaro, dove sorge ancora, sebbene non avesse ancora tutte le sue parti; e non mostrava nella triplice porta e nell’atrio la imponenza della sua mole e l’orgoglio della famiglia. Si capiva benissimo che non si tralasciava l’occasione per frequentare la nobile casa, e i Geraci sfoggiavano fin dallo scalone la loro magnificenza. Fino al Quattrocento i nobili erano solamente conti; il primo nominato marchese fu il magnifico Giovanni Ventimiglia, che da conte di Geraci diventò marchese, e per un secolo si disse in Sicilia semplicemente “il marchese” senza altro per indicare i Ventimiglia. Questo fatto aveva indotto a ritenere la loro nobiltà come la più antica e genuina; e sebbene il feudo fosse elevato a principato, pure tenevano a quel primo titolo.
Le vaste sale erano affollate di dame di tutte le età e di tutte le bellezze. Non dico che vi era anche qualche bruttezza; la quale per altro serviva inconsapevolmente di contrapposto per far meglio risaltare la beltà delle altre; e qualche scheletrica o per converso sferoidale figura, che facevano apprezzare meglio le gentili e giovanili silfidi che popolavano le sale. E la gran maggioranza era di maritate; gli usi del mondo allora non consentivano alle fanciulle di intervenire alle conversazioni e alle feste da ballo. Appena se ne vedeva qualcuna, ma di solito aveva oltrepassato i trenta anni, che in una città e in una classe abituata a vederle spose a sedici ed anche a quattordici anni, significava avere quasi l’età sinodale. Dunque giovani mogli, sul cui volto si leggeva apertamente il desiderio di piacere. E ne avevano il bisogno; maritate dai parenti, senza conoscere il futuro marito, senza amarlo, spesso d’età quattro volte maggiore di quella della sposa, sentivano in cuore una aspirazione a qualche sentimento più dolce, che si tramutava in desiderio, e da questo in voglia. Non diciamo poi delle vedove ancor giovani o per lo meno ancora piacenti, e della moda dei cavalieri serventi.
Si capisce quale poteva essere la conversazione tra le dame e i cavalieri serventi e non serventi, e quale era lo sdolcinato linguaggio in uso fra loro.
La marchesa di Geraci aveva oltrepassato la quarantina ed era bruttina, ma spiritosa, e doveva a questa qualità la corte che le facevano non certo i giovani, che sfarfallavano dove il miele era più fresco e più dolce, ma i più maturi. Ella riceveva con molto garbo; aveva una frase gentile per chiunque le era presentato, sorridente e incoraggiante. Accanto a lei stava la giovane duchessa di Archi, come una tortorella abbandonata, dacchè il marito, un rompicollo, aveva stimato meglio seguire in continente la prima donna del teatro di S. Cecilia, senza dar di sé alcuna notizia. Era bellina, e il sorriso dolcemente malinconico era una leva potente per sollevare i pesi più saldi. La marchesa di Geraci se la teneva vicina appunto per la sua forzata vedovanza, che la rendeva interessante agli occhi di tutti, specialmente degli uomini, che però non osavano farle la corte sotto la vigilanza della marchesa. Appunto per questo, ella aveva per suo servente il cavaliere d’Archirafi, che aveva cinquantacinque anni: le oneste maldicenze erano messe a tacere.
Un’altra stella di prim’ordine era la duchessa di Garsiliato, che splendeva in mezzo ad una corte di gentiluomini. Era veramente bella, alta, slanciata, il volto ovale, nel quale sfolgoravano gli occhi nerissimi, il naso era un poema, diritto con le narici piccole leggermente rosee; la bocca di corallo. Non si poteva dir quanto fosse da attribuire ai segreti della sua toeletta, ma le fattezze incomparabilmente regolari non avevano bisogno dell’aiuto dei cosmetici. Parlava con grazia, un po’ lenta, con lievi gesti del capo, e con un sorriso affascinante. Aveva trentadue anni.
Ma la marchesa di Aidone, una bella donna anche lei, pareva la fragilità in persona; si sarebbe detto che si spezzava in due; ogni più piccolo incidente le cagionava una grande commozione che si manifestava in interiezioni, in “ohimè”, in “oh Dio”, in mani al cuore e simili gesti di una straordinaria sensibilità. Era piccolina e piuttosto magra.
La contessa di San Bartolomeo per converso rideva sempre per qualunque causa, anche se triste; era una cosa superiore alla sua volontà; rideva di nulla, e spesso si domandava perché ridesse. Grassoccia, né alta, né bassa, bianca e rosea, pareva il ritratto della buona salute, e infondeva agli altri la giocondità. Aveva anche lei ventisette anni come la marchesa di Aidone.
La principessa d’Altofonte pareva una regina orgogliosa; era bella, ma le sue fattezze riflettevano l’orgoglio e acquistavano una certa durezza, che respingeva gli animi. Giunonica, s’avvaleva del suo corpo per imporsi, e dovunque passava, accoglieva con un sorriso di protezione gli inchini di chi, forse, valeva più di lei. Non aveva che una adorazione: la plastica e armoniosa bellezza delle sue forme; e quando usciva dal bagno, si guardava tutta nuda nel grande specchio, compiacendosi con se stessa, e domandandosi se v’era alcuna donna che si rassomigliasse a lei. Se fosse vissuta ai tempi delle favole, avrebbe creduto che il sommo Giove l’avesse generata.
Ma a che parlare di tutte quante le dame che rendevano i saloni della marchesa di Geraci simili a olezzanti superbi mazzi di fiori.
V’era da per tutto un cicaleccio frammisto di risatine, di esclamazioni, di domande; un brusìo di mille voci che parlavano a voce moderata ma che tutte insieme facevano un tumulto giocondo. Ma a un tratto corse una voce e si fece un gran silenzio; la marchesa aveva preparato una sorpresa che nessuno si aspettava: la recita d’una farsetta originale, non lunga, con pochissimi personaggi; la marchesa taceva chi era l’autore, ma la incorreggibile imprudenza della baronessa di Santo Stefano aveva rivelato sotto voce che era la stessa marchesa, che si compiaceva di serbare l’anonimo. La malignità sussurrava che la baronessa ne aveva ricevuto l’imbeccata: ma ognuno fingeva di ignorarne l’autore.
V’era nell’ultima sala un palcoscenico velato, e là passarono gli invitati, e presero posto. 


Luigi Natoli: Ferrazzano. 
Nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 30 ottobre 1932.
Prezzo di copertina € 19,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

lunedì 11 giugno 2018

Luigi Natoli: I tedeschi sparano sulla Croce Rossa. Tratto da: Alla guerra!

Benoist adagiava Guy con le spalle contro il tronco d’un albero. Il combattimento volgeva al suo termine; i tedeschi fuggivano, riparavano dietro le trincee, nel bosco; vi si fortificavano; non v’era più che qualche piccolo episodio qua e là: le fucilate s’andavano affievolendo. La battaglia divampava invece sopra altri punti, forse, dalla parte di S.t Hilairie le petit e di Maronvilliers, o più giù, verso Perthers e Beausejour; e doveva essere fiera, a giudicare dal cannoneggiamento.
Con l’andar cessando del combattimento, si dava opera a raccogliere i feriti. Sopraggiungevano i porta barelle, qualche ambulanza; ma dalle loro trincee i tedeschi, appostati e riparati sparavano contro i militi della Croce Rossa e i soldati che si spingevano nel campo per compiervi il loro ufficio pietoso. Tuttavia, alcuni sfidarono il pericolo, strisciando per terra, fino a raggiungere i feriti più lontani e ad aiutarli a trascinarsi verso le linee francesi. Qualcuno sollevava audacemente il ferito, se era privo di sensi o nella impossibilità di muoversi; e caricandoselo su le spalle, prendeva la corsa, tra le fucilate.
Qualcuno pagò con la vita il sentimento della sua carità.
Un milite della Croce Rossa, grigio e rugoso, volontario forse, spintosi carponi fra le trincee francesi e le tedesche, sentì da un mucchio di caduti venir fuori una voce lamentosa e supplichevole. Avvicinatosi, vide un povero fante tedesco col capo sanguinante e una gamba spezzata, che cercava liberarsi da un compagno che gli era caduto addosso, morto. Il povero fantaccino pareva soffrisse orribilmente, e guardava con occhi spalancati tra pavidi e imploranti il milite che gli si era avvicinato, e che lentamente, per non urtare la gamba spezzata, andava tirando da parte il cadavere. Quando ebbe liberato da quel peso, il ferito, gli prese le mani e gli fe’ segno di voler essere abbracciato. Il ferito capì. Il milite distese un po’ il dorso; il ferito vi appoggiò il petto, e allacciò con le braccia il collo del milite, che a poco a poco, camminando carponi sulle mani e sulle ginocchia, col ferito addosso, riprese la via. Poi trovato un sasso, appoggiatovisi, si sollevò in piedi con il ferito, a cui la gamba penzolante, trascinata, dava tortura, e gemeva orribilmente.
- Abbi pazienza! povero boche! – diceva il milite; – all’ambulanza l’acconceranno.
Con quel corpo su le spalle il milite cercò di guadagnare la via, con passo svelto. Due, tre fucilate fischiarono sul capo e agli orecchi.
- Oh! oh! – disse – non vedono dunque che ho su le spalle uno di loro?
Ma altre fucilate rimbombarono. Il milite e il ferito caddero.
Caddero sotto il fuoco implacabile dei tedeschi, che pur di impedire al nemico di compiere il suo pietoso ufficio, non esitarono di assassinare il loro compagno: ma lì, tra le due trincee nemiche, donde la morte insidiosa si nutriva di odio.
Caddero abbracciati com’erano. La pietà, che abolendo l’odio, aveva congiunto nella fraternità del dolore i due nemici, non sciolse il loro abbraccio nella morte. E giacquero così, sotto il cielo piovoso, olocausto offerto dalla carità alla barbarie. 


Luigi Natoli: Alla guerra!
Grande romanzo storico contemporaneo ambientato nella Francia della seconda guerra mondiale. 
Pubblicato per la prima ed unica volta a puntate in appendice al Giornale di Sicilia, viene raccolto in unico volume ad opera de I Buoni Cugini editori nel 2014, a cento anni dalla prima pubblicazione e dall'inizio del conflitto. 
Pagine 956 - Prezzo di copertina € 31,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice 

Luigi Natoli: La battaglia - Tratto da: Alla guerra!

Il duello delle artiglierie continuava, quando di fra le masse arboree, che nella tenue luce dell’alba apparivano più ombrose, si videro muovere le colonne dei tedeschi. Elmi e baionette corruscavano allo scoppio delle granate. Si avanzavano coperti dagli alberi, protetti dalle loro artiglierie.
Benoist non era quel mattino in trincea: con la sua mezza compagnia s’era ritirato la sera innanzi dietro le linee, per riposarsi: ma all’allarme squillato dalle trombe, accorse, come gli altri, a prendere il suo posto.
Il colonnello si era avanzato allo scoperto, col binocolo sugli occhi, per osservare i movimenti del nemico. L’azione doveva essere cominciata in più punti del vasto fronte, dei quali il lembo della foresta rappresentava uno degli estremi. Il cannoneggiamento s’udiva anche da S.te Menehould, e oltre. A quanto poteva giudicarsi, i tedeschi si avanzavano con forze considerevoli per tentar di sloggiare i francesi e sfondare le loro linee. Era una vigorosa ripresa dell’offensiva con la quale essi volevan forse cancellare lo scacco subito quasi alle porte di quella Parigi, che avevan creduto di poter espugnare in due settimane di guerra. Il colonnello telefonò al comando che era necessario un rinforzo considerevole, per impedire che il nemico, spezzata la resistenza e trovata una via, potesse avvolgere e assalire di fianco i francesi.
Dal comando fu risposto che si sarebbe mandato un battaglione del 124°, ma che intanto si sostenessero, senza cedere un palmo di terreno.
La prima aurora s’apriva la via fra le gravi nubi che opprimevano il cielo, quando giunse il battaglione: bisognava ora avanzare per un terreno battuto dalla mitraglia nemica, impresa ardua pel numero delle vittime che sarebbe costata. Ma intanto le colonne tedesche si addensavano sull’orlo della foresta, come per aspettare il momento opportuno di lanciarsi con le baionette alla conquista delle trincee: e dalle loro trincee saltavan fuori, spargendosi e strisciando per terra, come serpi, i soldati del genio per tagliare i fili dei reticolati, che formavano la prima difesa. Si avanzavano sotto il grandinare delle palle francesi, che sibilavano sul loro capo. Qualcuno si arrestava: rotolava sopra i suoi fianchi; giaceva inerte con le braccia contratte dallo spasimo; ma per uno che rimaneva per via, la trincea ne vomitava dieci; dalla seconda linea trincerata dove stava, Benoist li vedeva balzar fuori a dieci, a venti, senza posa, automaticamente, come spinti dal moto isometrico di una macchina. Donde le trincee tedesche vomitavan tanta gente?
Oramai tutto il fronte era un vasto incendio assordante di tuoni spaventevoli, di crepitii, di sibili e di mugolii raccapriccianti. La prima trincea francese pareva oppressa dalle granate che solcavano la terra; la terra umida, molle, rotta dagli scoppi si rovesciava in piogge di fango e pietre e schegge: sotto la furia del ferro, le piccole corazze di protezione vacillavano, qualcuna si spezzava, altre cadevano, strappate violentemente. I soldati però non cedevano; fulminando i tedeschi con un fuoco incessante e micidiale. Dietro a loro i 75, battevano con una selvaggia follìa di distruzione la foresta, scagliavan ferro e fuoco, seminavan la morte tra le file nemiche: ma esse si rinnovavano, si rinserravano, si avanzavano con implacabilità metodica, come se la morte li rigenerasse.
Già in più punti i fili del reticolato erano tagliati: le artiglierie tedesche non battevan più la prima trincea, per lasciar compiere l’assalto; le colonne che si avanzavano erano così fitte, che non era possibile sostenerne l’urto. Il colonnello ordinò allora che i difensori si ripiegassero sulla seconda trincea. Dai cunicoli di comunicazione i soldati si ritirarono, quasi nel momento stesso che i tedeschi, levando alte grida si slanciavano alla baionetta; ma nel momento che essi irrompevano sulla trincea, le mine, già preparate scoppiarono, travolgendo in un vortice di polvere, sassi e fiamme gli assalitori.
Allora approfittando dello sgomento, le trombe francesi squillarono la carica. Le compagnie della seconda trincea saltaron fuori; il battaglione di rinforzo le sorresse con altre due compagnie; trascinati dal furore, i fantaccini francesi si gittarono sui tedeschi, baionettandoli; avvenne una mischia feroce e terribile a corpo a corpo; uno di quegli episodi che rinnovano nella memoria le gesta della guerra classica, coi loro eroismi pieni di selvaggia grandezza. Sotto il rombare dei cannoni, che cercavano di impedire alle compagnie di riserva di sopraggiungere e rinforzare i combattenti, non si vedeva che un corruschìo di lame, un guizzare di fiamme, un martellar di fucili branditi come mazze.
Poi i tedeschi vacillarono. Allora si levò tra’ francesi un grand’urlo.
- Viva la Francia!... Avanti! avanti!...
Pareva che ogni uomo avesse dieci braccia e dieci anime. Un’altra compagnia di fanti giunse a passo di carica, sotto la mitraglia in aiuto dei francesi: i tedeschi cedettero, indietreggiarono, si volsero in fuga, con le baionette alle reni: molti buttavano il fucile, alzavan le braccia e si rendevano, per aver risparmiata la vita; altri preferivano farsi ammazzare eroicamente, pur di non cedere le armi e il terreno.
Incalzando, trascinati dall’ardore della vittoria le compagnie francesi giunsero con alte grida alla prima trincea nemica; spezzarono i fili di ferro, sebbene fulminati a bruciapelo, balzarono nella trincea, intorno alla quale i fuggiaschi, sciabolati dai loro ufficiali, tentavano riordinarsi. Altre compagnie tedesche accorrevano dalla boscaglia, per sorreggere i vinti; ma altre compagnie francesi alla loro volta giungevano a passo di carica, intanto che i pezzi da 75 battevano fieramente il bosco, e mitragliavano la fanteria nemica.
Dentro la trincea una trentina di soldati francesi eran già saltati, come belve, baionettando ciecamente, e impedendo che i difensori facessero scoppiare le mine: l’assalto era stato così improvviso, che aveva gittato lo sgomento nei tedeschi: chi potè fuggire, fuggì, o uscendo all’aperto, gittando le armi, o cacciandosi nei corridoi di comunicazione con le altre trincee, e travolgendo nella furia dello spavento i rinforzi che accorrevano per quelle vie. Una parte della trincea saltò in aria, seppellendo assalitori e assaliti in orrenda carneficina; ma la più parte era già in potere dei francesi; che la trasformavano sollecitamente, per farsene una difesa; vi apportavano le mitragliatrici; riprendevano l’attacco contro le nuove colonne tedesche, che si avanzavano a grandi masse compatte, ferrigne.
Il giorno era già chiaro, ma nubiloso, e diffondeva intorno una luce scialba e malaticcia, solcata dai fiocchi delle granate, dalle fiamme degli scoppi. Nella triste chiarità, sul terreno squarciato, lucente qua e là per le pozze delle piogge recenti, apparivano ora più visibili i segni della strage: mucchi di caduti, nei più strani e terribili atteggiamenti; onde di sangue vermiglio, nelle quali la luce del giorno accendeva bagliori; armi e munizioni sparse; orrore e pietà. E la battaglia continuava. Continuava con ostinazione e furore da ambo le parti; ma gli sforzi dei tedeschi per ricacciare i francesi si infrangevano dinanzi al fuoco delle mitragliatrici e dei tiragliatori coloniali chiamati sul campo; e agli attacchi violenti dei fantaccini.
Allora due compagnie fresche furono mandate per prendere di fianco, con un movimento agirante i francesi, alla loro destra. V’era da questa parte la sezione comandata da Benoist, che, in verità non aveva posto mente al pericolo; ma il suo sergente, che aveva forse maggiore esperienza guerresca, lo avvertì:
- Signor tenente, i boches ci avvolgono...
-  Ah! è vero! – sclamò Benoist.
Ordinò ai suoi di spiegarsi fra gli alberi che costeggiavano la trincea, e cominciare un fuoco serrato contro la colonna tedesca; e intanto mandò un soldato al comando, per avere rinforzi.
Al comando s’erano già accorti del movimento dei tedeschi. Il colonnello ordinava in quel momento alla terza compagnia del battaglione di riserva, di accorrere alla destra, con una sezione di mitragliatrici, per sorreggere gli uomini di Benoist. Era la compagnia di Guy.
Guy, giunto alla brigata il giorno innanzi, faceva parte delle truppe spedite dal comando della divisione a rinforzare la trincea. Fino a quel momento era rimasto spettatore impaziente della mischia, aspettando e sollecitando col desiderio, di entrare in azione. Ricevuto l’ordine, spinse i suoi uomini al passo di carica; avviò le mitragliatrici sopra un lieve poggio coperto di alberi, donde esse, dominando il terreno e al coperto, aprirono il fuoco contro le compagnie tedesche; intanto che egli si avanzava, distendendo la compagnia più oltre, per fronteggiare il nemico.
Il combattimento si riaccese più vivamente e più ferocemente su questo lato. Da una parte e dall’altra nuovi rinforzi giungevano sulla linea del fuoco; ma i tedeschi si avanzavano in masse compatte, serrate, che offrivano un sicuro bersaglio ai fucili e ai cannoni: i francesi invece combattevano in ordine sparso, e potendo più agevolmente trovar riparo, dietro alberi, sassi, cespugli, fossi, si offrivan meno al fuoco nemico, e gli recavano il maggior male. Tuttavia la tattica tedesca non si piegava, non mutava dinanzi alle necessità di quel momento. La mitraglia, il fuoco di fila aprivano profondi solchi nella colonna; altri soldati sopraggiungevano; la colonna si serrava, si avanzava, spinta dagli ufficiali. Si avanzava verso la morte. Pareva che gli ufficiali avessero la voluttà del morire e di veder morire. Vi era in quella loro cieca ostinazione di esporsi al fuoco e lasciarsi decimare un sentimento di grandezza e di eroismo, che strappava l’ammirazione.
Benoist, che aveva preveduto per sè e pei suoi l’olocausto della vita, dinanzi al numero soverchiante, sentì dietro di sè ringagliardire il fuoco e udì il crepitio delle mitragliatrici; vide nella massa dei tedeschi i varchi aperti dal ferro e dal piombo; capì che eran venuti i soccorsi.
- Coraggio, ragazzi! – diceva – sono arrivati i rinforzi....



Luigi Natoli: Alla guerra! 
Grande romanzo storico contemporaneo ambientato nella Francia della prima guerra mondiale. 
Pubblicato per la prima ed unica volta a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914, viene editato in unico volume ad opera de I Buoni Cugini editori nel 2014, a cento anni dalla prima pubblicazione e dall'inizio del conflitto mondiale. 
Pagine 956 - Prezzo di copertina € 31,00 - Copertina e illustrazioni di Niccolò Pizzorno. 
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it