"I nostri romanzi sono una lettura eletta ed altamente appassionante, essi sono opera del grande WILLIAM GALT"
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mercoledì 30 dicembre 2015
I cavalieri della Stella o la caduta di Messina di Luigi Natoli
mercoledì 23 dicembre 2015
Luigi Natoli: costumanze natalizie.
Durante nove giorni, dal 16 dicembre, i ciaramellari o suonatori di violino, vanno in giro; e dinanzi alle edicole e alle cappellette o nelle case dove sono accaparrati per tutta la novena, suonano la pastorale, e cantano brevi canzoncine intorno alla nascita di Gesù.
Quando per la prima volta si sente il suono della ciaramella, un sentimento di gioia sorride in tutti i cuori: essa è l'annunciatrice del Natale.
I ragazzi costruiscono il presepe, o lo acquistano bello e fatto. E' una piccola scena, che di solito rappresenta una montagna, nella quale si aprono due grotte. Per le rocce si usa il sughero che è scabroso e le imita bene; qua e là ci si mettono casette, torri, fichidindia di argilla dipinta, capanne. E poi vi si dispongono i pastori, che così si chiamano tutti i personaggi: in una grotta si mettono Maria, Giuseppe, il Bambino, l'asino e il bue; e dinanzi alla bocca della grotta il suonatore di ciaramella, il pifferaio, i pastori che offrono doni. Altri pastori e pastorelle si spargono per le rocce: quale con un fascio di legna, quale dormente, o spaventato dalla luce, o spingendosi innanzi un asinello carico di cavolfiori: altri pastori dentro la seconda grotta attendono a far caci e ricotte.
La notte di Natale si accendono lampadine che illuminano la scena; ed è una festa pei ragazzi. E se si può, si fa venire il ciaramellaro a suonare la pastorale e a cantare:
A la notti di Natali,
ca nasciu lu Bammineddu,
e nasciu 'mmenzu l'armali,
'mmenzu un voi e un asineddu.
E poi si va a cena. E' la cena più allegra, anche se povera. La massaia ha preparato il dolce di occasione, secondo l'usanza del paese, e sulla tavola abbonda la frutta secca.
Durante la novena, ma più la notte di Natale, nelle case si gioca alla tombola, per pochi centesimi; poi si va alla messa di mezzanotte: perché la notte di Natale nelle chiese si dice messa, e il prete ne celebra tre.
E così si aspetta il domani, che è la festa grande, e in tutte le case c'è pace e gioia, come se vi fosse sceso Gesù a benedire con le sue manine gli uomini di buona volontà.
Luigi Natoli.
Gli auguri di buon Natale di Luigi Natoli
E la notte in cui nacque, i pastori dei dintorni videro una gran luce, e in essa un coro di angeli che cantava: Gloria a Dio nei più alti cieli, e pace in terra agli uomini di buona volontà. Un angelo annunciò ai pastori la nascita del Messia, e insegnò loro dove: e i pastori corsero e adorarono il Bambino Gesù.
La nascita di Gesù avvenne nella notte dal 24 al 25 di dicembre. E tutto il mondo cristiano la festeggia con cerimonie e riti e usanze diverse; ma tutte si accordano nel significato che ha la festa: l'augurio della pace fra gli uomini.
Pace ed amore fraterno. Gesù venne al mondo per fondare una religione nuova: una religione per la quale tutti gli uomini debbono riconoscersi come fratelli, figli di un Dio padre celeste, misericordioso e previdente. Tutti debbono amarsi, aiutarsi, tollerarsi, perdonarsi a vicenda: non odii, non guerre: una umanità nuova. E questo ricorda la festa di Natale.
Festeggiala dunque col cuor puro. Come con Gesù nacque una società nuova, così nasca dentro di te un uomo nuovo.
Questa notte Gesù par che ci dica:
- Un anno muore, ma nel suo seno si è gittato il germe di un nuovo anno: io chiudo un tempo e ne apro un altro; come dalle ombre e dagli squallori dell'inverno la natura esce rinnovata, così esce rinnovato il genere umano dagli errori antichi: e così tu dovrai rinnovarti.
Luigi Natoli
Nella foto: presepe nella chiesa di S. Mamiliano - Via Squarcialupo - Palermo.
domenica 13 dicembre 2015
Consigli per la salute di Luigi Natoli.
La salute è il primo dono.
E conservarla sta in grandissima parte in noi. Aria, acqua, sole, cibo moderato
e sano, poco o niente vino, lavoro e riposo adeguato, ti conservano sano e longevo.
Non credere che mangiar troppo giovi. Ti rovina invece lo stomaco. Mangia quando senti gli stimoli della fame.
Non credere che il vino fortifichi. Ciò che rende forte il vino è l'alcool, e l'alcool è un veleno. E chi ne abusa, chi si ubbriaca, si avvelena.
La miglior bevanda è l'acqua pura.
Già sai che l'acqua è anche la miglior medicina per preservarti il corpo da tante malattie della pelle. Fai dunque dei bagni, e avvezzati a farli d'acqua fredda: non solo terrai mondo il corpo, ma lo fortificherai contro il freddo.
Non credere che la fatica rovini la salute; la rovina, se è eccessiva, e se oltrepassa le tue forze.
I carusi delle zolfare vengono su malfatti, perché il loro corpo ancor tenero è sforzato a sostenere una fatica superiore alle loro forze.
Il troppo riposo svigorisce, e genera l'amore per l'ozio, che nuoce al corpo e all'anima.
L'acqua del mare che è sempre in moto non imputridisce; ma l'acqua che ristagna nei pantani si corrompe e appesta l'aria. Così è dell'ozio.
Non credere che il coprirti di vestiti pesanti, di mantelli, di sciarpe, giovi a mantenerti in buona salute. Avvezza invece il tuo corpo a sopportare il freddo; e vesti per difenderti dai troppi rigori e dall'umidità, non per isfoggio.
Luigi Natoli
Nella foto: ex voto esposto al Museo Pitrè di Palermo.
venerdì 11 dicembre 2015
domenica 6 dicembre 2015
Latini e Catalani vol. 2: il tesoro dei Ventimiglia.
Mastro
Bertuchello e Il tesoro dei Ventimiglia sono
rispettivamente il primo e il secondo volume del grande romanzo storico
siciliano Latini e Catalani che Luigi
Natoli, dopo averli pubblicati in appendice al Giornale di Sicilia tra 1921 e
il ’22, diede successivamente alle stampe con La Gutemberg Editrice in nuove edizioni rivedute e corrette negli
anni 1925 e ‘26.
Nei due volumi, che possono leggersi
separatamente senza che il secondo renda necessaria la lettura del primo, il
grande romanziere palermitano descrive in modo impeccabile l’epoca oscura e
controversa del medioevo siciliano, con specifica attenzione ai fatti storici e
alle guerre fratricide volute dalle più importanti baronie isolane dei
Chiaramonte, Ventimiglia e Palizzi, volte alla conquista del potere supremo
detenuto dalla corona Aragonese oramai debole e pronta a spegnersi.A fare da sfondo al romanzo è una Palermo ancora splendida nelle sue vestigia arabo-normanne, ricca di etnie, tradizioni, e cultura dove regna anche una grande miseria materiale e morale afflitta da pregiudizi e da una confusa identità politico/popolare.
In questo scenario ritroviamo mastro
Bertuchello alle prese con un immenso tesoro la cui esistenza è divenuta
leggenda. Sarà lui a dipanare il mistero e a tirare le fila di una storia ricca
di intrighi e avventura dove i puri valori della lealtà e amicizia faranno da
contraltare all’odio razziale, ai tradimenti e alla bramosia del potere.
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Latini e catalani vol. 1: Mastro Bertuchello.
Mastro
Bertuchello e Il tesoro dei Ventimiglia sono
rispettivamente il primo e il secondo volume del grande romanzo storico
siciliano Latini e Catalani che Luigi
Natoli, dopo averli pubblicati in appendice al Giornale di Sicilia tra 1921 e
il ’22, diede successivamente alle stampe con La Gutemberg Editrice in nuove edizioni rivedute e corrette negli
anni 1925 e ‘26.
Nei due volumi, che possono leggersi separatamente
senza che il secondo renda necessaria la lettura del primo, il grande
romanziere palermitano descrive in modo impeccabile l’epoca oscura e
controversa del medioevo siciliano, con specifica attenzione ai fatti storici e
alle guerre fratricide volute dalle più importanti baronie isolane dei
Chiaramonte, Ventimiglia e Palizzi, volte alla conquista del potere supremo
detenuto dalla corona Aragonese oramai debole e pronta a spegnersi.
A fare da sfondo al romanzo è una Palermo ancora splendida nelle sue
vestigia arabo-normanne, ricca di etnie, tradizioni, e cultura dove regna anche
una grande miseria materiale e morale afflitta da pregiudizi e da una confusa
identità politico/popolare.
Mastro Bertuchello muoverà le sue gesta
avventurose e temerarie in questo mondo così complesso e variegato, pieno di
intrighi e cattiveria dove convivono ancora intatti i sentimenti di lealtà e
amicizia che fanno di questo romanzo uno fra i più apprezzati di Luigi Natoli
in arte William Galt.
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Ritorna il romanzo di Luigi Natoli "Latini e Catalani" nei due volumi "Mastro Bertuchello" e "Il tesoro dei Ventimiglia"
Mastro
Bertuchello e Il tesoro dei Ventimiglia sono
rispettivamente il primo e il secondo volume del grande romanzo storico
siciliano Latini e Catalani che Luigi
Natoli, dopo averli pubblicati in appendice al Giornale di Sicilia tra 1921 e
il ’22, diede successivamente alle stampe con La Gutemberg Editrice in nuove edizioni rivedute e corrette negli
anni 1925 e ‘26.
Nei due volumi, che possono leggersi separatamente
senza che il secondo renda necessaria la lettura del primo, il grande
romanziere palermitano descrive in modo impeccabile l’epoca oscura e
controversa del medioevo siciliano, con specifica attenzione ai fatti storici e
alle guerre fratricide volute dalle più importanti baronie isolane dei
Chiaramonte, Ventimiglia e Palizzi, volte alla conquista del potere supremo
detenuto dalla corona Aragonese oramai debole e pronta a spegnersi.
A fare da sfondo al romanzo è una Palermo ancora splendida nelle sue
vestigia arabo-normanne, ricca di etnie, tradizioni, e cultura dove regna anche
una grande miseria materiale e morale afflitta da pregiudizi e da una confusa
identità politico/popolare.
mercoledì 18 novembre 2015
Luigi Natoli nel romanzo "Gli ultimi saraceni": alcuni concetti sul Corano e sulla religione islamica espressi dallo scrittore nel 1911
Dio è padre comune, e la carità
si fa a tutti, anche agl'infedeli. Così vuole il
Profeta!...
Che
bisogno c'è di sapere il nome delle persone che beneficano? Serba memoria del
benefizio. Esso ti viene dai veri credenti.
Dio è uno; il
dio di Gesù figlio di Maria suo profeta, non è altro dio di quello di Maometto
ultimo e maggiore dei profeti.
Akab Allah era il grido
di guerra dei saraceni; esso significava la guerra, la strage, il tradimento.
V'era un ospizio nel quale la
carità prevaleva sull'interesse; e la carità ospitale era forse più umanamente
e rigidamente osservata dai seguaci dell'islam, che da quelli del Vangelo.
Per gli islamiti la donna non era che un
essere inferiore votato al piacere dell'uomo, e null'altro. Essa non aveva
l'anima dell'uomo. Era una cosa.
Per quanto senza autorità,
senza potere, avvilita, la società musulmana formava sempre una unione, una
specie di stato, che conservava una certa compattezza. L’apparente disunione,
la diversità degli interessi, non avevano distrutto quello che è il fondamento
dell’unità del mondo musulmano, l’unità religiosa, cioè, per la quale berberi,
arabi, siriani, persiani, egizi, negri non ostante le differenze di razze si
sentivano veramente affratellati e concordi.
Luigi Natoli nel romanzo Gli ultimi saraceni: discorso di Giafar sul re Ruggero e sul dominio arabo.
"Tu
hai tradito la nostra fede; tu hai abbandonato il campo seminato di grano, per
entrare in quello intrigato di spine e di gramigne. Hai dimenticato i nostri
padri, che già diffusero tra le terre dei Rumi il terrore del leone dell’islam;
e ti sei avvilito fra gli infedeli, nati per servire. Che fede vuoi che io ti
aggiusti? Troppe ingiurie ci sono recate; e troppo i patti sono stati violati;
ma non da parte nostra. Al tempo di Ruggero, gloriosa spada dei Rumi, noi
potevamo rimpiangere il perduto dominio; ma almeno eravamo liberi e pari ai
nazareni: avevamo i nostri cadì, i nostri ulema; i nostri fondachi abbondavano
di ogni bene che Allah dispensa ai credenti; i nostri savii ornavano la reggia,
i nostri artefici pieni di ingegno meraviglioso fabbricavano pel re congegni
mirabili per distinguere le ore, e per scoprire i misteri degli astri; i nostri
filosofi e dottori disputavano coi filosofi dei Rumi; e nessuno meglio di noi
leggeva il gran savio Aristotele; nessuno meglio dei nostri commentava
Ippocrate. Allora Edrisi scriveva il suo magnifico Sollazzo, che abbraccia il mondo, opera che nessuno aveva composto
prima, e comporrà in appresso. E il re dei cristiani, il potentissimo Ruggero,
sul quale piovvero tutte le misericordie di Dio, onorò i nostri saggi; ne seguì
i precetti, usò le nostre vesti, il nostro linguaggio, ebbe cari i nostri
artefici. E le nostre campagne, i nostri mensil, i nostri rahat?... Ma ora? Ora
è tutto mutato; pare che si prepari un’era di servitù; forse per punire la
nostra viltà. Noi perdemmo lo stato perché fummo divisi e discordi; ora
perderemo la libertà perché siamo vili!... Che cosa vuoi? Della viltà nostra,
ecco, tu sei un esempio: tu, per viltà hai tradito la tua stirpe, la tua fede.
Il guadagno e la paura hanno piegato l’animo tuo, come il vento piega il giunco
nello stagno. E ora vieni fra noi, e ci domandi di stringerci intorno al re.
Perché dobbiamo stringerci intorno a lui? egli non ci darà quello che abbiamo
perduto e che ci è stato tolto: lascia stare, gaito; noi faremo quello che
vorrà Allah".
Luigi Natoli, uno scrittore sempre attuale.
Luigi Natoli nel romanzo Gli ultimi saraceni: Abu-al-garaniq.
Era un bel vecchio, alto, magro, con una lunga barba
bianca sul petto, i capelli rasi, sotto il turbante; vestito di un caftau
turchino, stretto ai fianchi da una sciarpa color chiaro di luna. I suoi occhi
rotondi, dentro le larghe e profonde occhiaie, avevano un lucciare come di
febbre; e quando si fissavano sopra alcuno, mettevano una specie di rimescolio
nel sangue, uno strano e indefinito sgomento. Il suo nome, era veramente
Giafar; ma lo intendevano con quel soprannome Abu-al-garaniq, che era già un
indizio della scienza che egli professava, e per cui era conosciuto:
Abu-al-garaniq infatti significa Quello delle gru. Giafar era esperto di
scienze occulte; era astrologo, alchimista, e prevedeva il futuro, leggendolo
negli astri, nel volo e nel canto degli uccelli nei casi della vita stessa. Una volta, cosa non consueta nel
cielo di Palermo passò uno stuolo immenso di gru, a triangolo, gridando, con
uno stridore di carrucole arrugginite. Giafar salito sul terrazzo, interrogato
il volo, il numero, la direzione dello stuolo, e non si sa quali altri indizi,
previde che in quel giorno il glorioso e potente sopra i re, Ruggero principe
di Sicilia, sempre laudato, conquistava alla sua corona Tripoli e il territorio
fino a Cirene. Poichè le notizie giunte dopo, confermarono il pronostico,
Giafar fu soprannominato Quello delle gru, che in linguaggio arabo suona
Abu-al-garaniq.
Giafar era un buon
musulmano, pio, devoto, osservatore scrupoloso dei precetti del Corano. Per
quanti torti avesse Abd-Allah agli occhi suoi, era pur un credente in Allah,
ed egli aveva l'obbligo di soccorrerlo.
Luigi Natoli, uno scrittore sempre attuale.
Luigi Natoli nel romanzo Gli Ultimi Saraceni: la conversione di Agar al cristianesimo.
Questo concetto della donna le faceva apparire la religione disprezzata con
altro occhio; vedeva in essa una difesa, una sicurezza dell'amore. Quella
religione che comandava all’uomo di non amare che una donna sola, la donna scelta,
era stata certamente fatta per le donne. Pensava che
anche il Corano ricordava Maria, Gesù figlio di Maria; lo ricordava col nome
della madre, e non con quello del padre; e i nazareni veneravano la madre del
Profeta Gesù; essi non disprezzavano, non asservivano, non avvilivano la donna, se la veneravano così da dedicarle le loro
chiese.
Agar era d'origine berbera, della tribù dei Gewala; ma la
sua famiglia da lungo tempo s'era stabilita ad Alessandria, dove trafficava.
Ella era cresciuta in quell'Egitto dove si incontravano tre civiltà; e aveva negli occhi il fascino sacro del Nilo, l'ardenza del
deserto, la grazia dall'antica Ellade. V'era una tristezza nostalgica, un sogno
e nel tempo stesso un ardore di vivere e di gioire; l'ombra, la luce avevano nel suo sguardo una velatura
di languore e un dolce abbandono pieno di promesse.
Il
re la guardò un istante, in silenzio. Aveva creduto che Agar, entrando, gli si sarebbe
gittata ai ginocchi piangendo, supplicando, implorando; umile
e sottomessa; come tutte le donne del tiraz, come tutte le saracene, la cui mentalità non
attribuiva a sè stesse un valore. Invece ella stava dinanzi a lui diritta,
senza tracotanza, ma senza debolezze.
Luigi Natoli: uno scrittore sempre attuale. Il romanzo fu infatti pubblicato per la prima volta in appendice al Giornale di Sicilia nel 1911 - Edito oggi per la prima volta in libro da: I Buoni Cugini Editori.
giovedì 5 novembre 2015
Luigi Natoli: il 4 novembre.
E' festa, grande festa nazionale. Il 4 novembre 1918 l'esercito austriaco, sconfitto nella grande battaglia di Vittorio Veneto, volse in fuga; e il suo comando supremo dovette domandare un armistizio.
Ma già il tricolore sventolava a Trieste e a Trento, sospiro di ogni cuore italiano.
Per questa vittoria l'Italia ora è tutta quanta libera da ogni soggezione: la catena delle Alpi è tutta nostra; e nessuno straniero può più valicarla e accamparsi nelle nostre terre.
Quanti sacrifizi, però, quanto sangue è costata l'unità nazionale!
In alto il vessillo! E gridiamo gloria a coloro che ci diedero una patria unita, forte, grande.
Luigi Natoli.
venerdì 30 ottobre 2015
Luigi Natoli nel romanzo Gli Schiavi: la festa della "catagogia" della dea Venere.
Il culto di Afrodite Ericina, o Venere,
crebbe con gli anni, e il suo tempio, mèta di pellegrinaggi, era il più ricco
del mondo e rivaleggiava con quello di Pafo. Forse a questo valeva molto la
presenza delle jerodule, che avevano in custodia il tempio. Le jerodule, tutte
giovani e belle, erano ad un tempo sacerdotesse ed esercitavano la sacra
prostituzione; il rito era antico, e nessuno sapeva quando fosse cominciato.
Non uscivano mai fuor dalle mura che circondavano il tempio, se non quando erano
vecchie; avevano case, e vivevano di comune accordo. Diciassette città per
ordine dei Romani provvedevano il tempio di quanto occorreva, e duecento
soldati vigilavano alla sua sicurezza.
S’aspettava il ritorno delle colombe
sacre ad Afrodite. Ogni anno miriadi di colombe fra i canti delle jerodule
prendevano il volo per la Libia, e dopo nove giorni tornavano. Erano precedute da
una colomba rossa, nella quale si intendeva impersonata la Dea. Il ritorno era
salutato da canti gioiosi e da riti.
Lungo la strada che dalla pianura saliva
per l’erta, una folla d’uomini, di donne, di ragazzi, si recava ad Erice, che
sorgeva in disparte del tempio, e più in basso; e dalla acconciatura dei
capelli, e dal colore preferito delle vesti si distinguevano fra le altre
abitanti di Lilibeo, quelle di Segesta, quelle di Selinunte. Erano liete e
ciarlavano.
La città era rumoreggiante per la prossima festa. Era detta
“catagogia”, come “anagogia” era chiamata la partenza della Dea. Nella
“catagogia” si celebrava il ritorno alla sua sede, lasciata per breve tempo, ma
che pareva lungo, quasi la Dea volesse abbandonare Erice. In ogni casa erano
festoni di mirto e di rose, e ardeva dinanzi ad una piccola immagine di
Afrodite il fuoco, dentro un’ara portatile o un tripode. Chi poteva, spingeva
al tempio capre o pecore per il sacrificio; portava in canestri le colombe o i
frutti che la stagione dava; e per tutto era un affrettarsi di cittadini e di
schiavi, un andare e venire, un tramestìo, un cicaleccio da non si dire. E
attorno soldati, che raccomandavano l’ordine, senza poterlo ottenere.
Cleone aveva condotto con sé dieci
schiavi e cinque ancelle, e aveva ordinato al suo navarca che con un numero di
marinai libici si unisse con lui nel pellegrinaggio. I soldati, schierati lungo
la via del Tempio, mormoravano parole piccanti alle donne; e alle belle
raccomandavano ridendo di rinchiudersi tra le jerodule. E il cammino procedeva
tra una fioritura di motti grassi e scurrili e di risate.
Il tempio sorgeva su una sommità isolata,
e vi si giungeva mediante un ponte steso fra le due cime, che pareva si
contendessero il primato. Era in un recinto di mura, e la porta ne era guardata
da parecchi soldati. Dietro di questa si allargava una vasta spianata, ad una
estremità della quale sorgeva il tempio. Non era magnifico, e nella costruzione
dimostrava il carattere arcaico; scoperto, ma tutto di marmi preziosi e bronzi
dorati, oro ed argento a profusione. V’erano candelabri ricchissimi, doni offerti,
“ex voto”, stoffe rare, statue e oltre l’ara, sopra un altare, l’immagine della
Dea, non quale si vede effigiata dallo scalpello greco, ma di forme arcaiche,
rigide, con un volto che incuteva spavento per la sua immobilità ieratica,
coperta di vesti e di monili preziosi.
Le jerodule cantavano un inno, e i
sacerdoti sacrificavano. Non vittime umane, come quando Erice cadde sotto i
Cartaginesi, ma pecore, capre ed altri animali, coronati di rose.
Cleone ed Egle erano da poco arrivati
innanzi al tempio, quando s’intese un grido:
- Vengono! Vengono!
Un movimento febbrile commosse la folla:
tutti gli occhi mirarono con ansia un gruppo che apparve volando nell’estremo
orizzonte, e che s’ingrandiva via via che s’avvicinava. Erano le colombe.
Allora da mille e mille bocche si levò un canto di ringraziamento: le jerodule,
i sacerdoti, unirono il loro inno; tutto il monte parve animarsi, fumare e
cantare; e su quel canto svolazzarono le colombe, si posavano sulle cornici,
sulle scannellature, sul frontone del tempio; alcune seguendo la colomba rossa,
immagine della Dea, penetrarono nel sacrario spaventate dall’immenso clamore.
Nella foto: lapide a Venere Ericina.
Luigi Natoli nel romanzo Gli Schiavi: il tempio di Venere Ericina.
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Erice sorgeva in cima ad un monte isolato
sopra Drepano, e il tempio famoso era visibile da ogni parte, poiché spuntava
oltre la muraglia che lo circondava, eretta o rafforzata dai Romani dopo la
conquista della città. Già Afrodite aveva mutato il nome greco in quello latino
di Venere; ma i Sicilioti e i Siculi ellenizzati continuavano a chiamarla
Afrodite.
Il nome primitivo datole dai naturali
dell’isola (giacchè si tratta di una divinità sicana) è ignoto. Narra Virgilio,
nel V libro del poema, che Enea, istituendo le feste pel compleanno della morte
di Anchise, suo padre, avesse eretto sul monte un tempio alla dea Venere.
Essa fu madre di Erice, figlio di Bute;
il quale Erice fu ucciso da Ercole, e sepolto nel monte, che da lui prese il
nome. Invenzione più poetica che altro.
Il culto di Afrodite Ericina, o Venere,
crebbe con gli anni, e il suo tempio, mèta di pellegrinaggi, era il più ricco
del mondo e rivaleggiava con quello di Pafo. Forse a questo valeva molto la
presenza delle jerodule, che avevano in custodia il tempio. Le jerodule, tutte
giovani e belle, erano ad un tempo sacerdotesse ed esercitavano la sacra
prostituzione; il rito era antico, e nessuno sapeva quando fosse cominciato.
Non uscivano mai fuor dalle mura che circondavano il tempio, se non quando erano
vecchie; avevano case, e vivevano di comune accordo. Diciassette città per
ordine dei Romani provvedevano il tempio di quanto occorreva, e duecento
soldati vigilavano alla sua sicurezza.
Quando la bireme di Cleone ancorò nel
porto di Drepano, s’aspettava il ritorno delle colombe sacre ad Afrodite. Ogni
anno miriadi di colombe fra i canti delle jerodule prendevano il volo per la
Libia, e dopo nove giorni tornavano. Erano precedute da una colomba rossa,
nella quale si intendeva impersonata la Dea. Il ritorno era salutato da canti
gioiosi e da riti.
Lungo la strada che dalla pianura saliva
per l’erta, una folla d’uomini, di donne, di ragazzi, si recava ad Erice, che
sorgeva in disparte del tempio, e più in basso; e dalla acconciatura dei
capelli, e dal colore preferito delle vesti si distinguevano fra le altre
abitanti di Lilibeo, quelle di Segesta, quelle di Selinunte. Erano liete e
ciarlavano.
Era l’alba: il cielo, imbiancatosi
all’orizzonte, era sgombro di nuvole: solo qualche lieve sfilacciatura si
andava colorando in roseo. Via via che i pellegrini ascendevano il monte,
vedevano spiegarsi e allargarsi tutto intorno il bello, grandioso ed orrido
paesaggio. Da una parte l’occhio correva a Drepano, simile a una falce caduta
in una immensa pozza di calce, per via delle saline che brillavano di bianco; e
più lontano, tra il dubbio vapore che saliva dalla terra ridestatasi, si vedeva
Lilibeo e la distanza avvolgeva la pianura in una cerula e indistinta nube.
Oltre Drepano,
oltre Lilibeo, il mare azzurro, senza confine; e le isole, il
capo Egitallo, che
già si doravano al sopravvenire dell’aurora. Ma girando il monte, mutava la
scena. Altri monti e ancora monti, quali ripidi tagliati a picco sul mare, che
qui prendeva una tinta di argento; quali succedentisi l’un dopo l’altro entro
terra, come in uno scenario fantastico. S’aprivano seni fra le rocce; ecco le
acque putizianese; ecco biancheggiare, tra il sì e il no dei capi, Cetaria
; e più lontana ancora la punta dei monti segestani. Dentro terra, boschi e
monti or coperti di verde, ora brulli. E l’una e l’altra visione si alternavano
sotto lo sguardo ammiratore dei pellegrini, che il sole, sorgente dalle onde,
rivestiva d’oro.
Nella foto: il tempio di Venere Ericina, a Erice.
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Nella foto: il tempio di Venere Ericina, a Erice.
Luigi Natoli nel romanzo Gli Schiavi: il tempio d'Iblea.
Il tempio d’Iblea, situato nel punto più
alto della piccola città, aveva intorno uno spazio più che sufficiente per
contenere le folle, che accorrevano anche dai paesi più lontani. Il tempio era
piccolo, con un portico esastilo, senza colonne intorno: e doveva quindi la sua
fama più al potere attribuito alla dea, che alla modesta bellezza
dell’edificio. Era stato il più frequentato dai Siculi e ad essi il più caro; e
così era passato ai Greci. Ai tempi di Cleone (verso il 620 di Roma), la sua
fama era decaduta alquanto, ma gli indovini vi godevano ancora credito. Non
erano più numerosi come un tempo, che si contavano a centinaia, tutti a
servizio del tempio; ma dei pochi che tuttavia esercitavano il servizio religioso,
alcuni erano creduti infallibili.
Naturalmente non si consultavano senza
doni, più o meno pingui, che andavano ad arricchire il tempio. La immagine di
Iblea, vestita alla greca, col bastone in una mano e una piccola anfora
nell’altra, era sovraccarica di gioielli, che ornavano anche l’effigie del cane
che le saltava addosso. Ma anche i sacerdoti indovini avevano la loro parte.
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giovedì 29 ottobre 2015
Luigi Natoli nel romanzo Ferrazzano: il giuoco della smorfia
Il giuoco! L’anno innanzi il vicerè don Marcantonio Colonna principe
d’Aliano, aveva pubblicato un bando coi soliti modi, e suon di trombe e di tamburi,
col quale proibiva i giuochi di “invito e parata”, fra i quali elencava quelli
che erano in uso tra le classi elevate e le infime: “Bassetta, biribisso,
primera di qualsivoglia sorte, goffo, stopo con invito, trenta e quaranta,
cartetta, banco fallito, regia usanza, o sia truppa, faraone, paris e pinta,
passa dieci, sette e otto, scassaquindici, laccio e cavigliola, cacocciolille,
o siano tabacchiere, o siano scorze di noce” e altri popolari; ma era stato
tempo perso. Il bando proibiva assolutamente a qualsiasi persona, senza
differenza di grado, condizione, dignità, nazionalità, privilegio, di tenere
“né direttamente né indirettamente, ridotti di giuochi pubblici o sia
baratteria di carte, dadi, palle e biribisso”. Proibiva che nessuno doveva
giocare e “intervenire
anche per vedere giocare”, fosse
in luogo pubblico o privato, “palagi, case, giardini... ecc.”
Li proibiva, e minacciava gravi pene: pei nobili, se uomini cinque
anni di relegazione, se donne cinque anni d’esilio; senza contare le multe in
soprappiù, e le pene che colpivano i creditori di giuoco e quelli che avevano
giocato in parola, e i conduttori di case da giuoco, i quali dovevano pagare al
fisco mille ducati, e perdere tavolini, sedie, “e tutti gli strumenti dei giuochi
proibiti”, che dovevano essere bruciati innanzi le case in cui si fosse
giocato… Ma non ci fu nessun condannato, nessuna casa vide bruciata la più piccola
cosa; e la prammatica del vicerè Marcantonio Colonna raggiunse tutte le altre
dei suoi predecessori sul gioco nel gran mare delle parole inutili.
Perciò si giocava a primera, a trenta e quaranta e alla bassetta in
barba alle disposizioni.
Dunque don Diego e il baronello Spinola, due arrabbiati giocatori, giocavano
audacemente forti somme. Il baronello puntava; che questo aveva voluto, dacchè
aveva la mano buona; del resto erano in vena di vincere, e dopo un’ora il
mucchietto ch’era dinanzi a loro, diventò
un mucchione. Ridendo si alzarono dal giuoco, e passarono nella sala di
conversazione. C’erano gli oziosi e in quel momento parlavano di un annunzio,
che si leggeva nella gazzetta “Il Nuovo Postiglione”. Era questa una raccolta
di notizie da Parigi, da Madrid, da Vienna, ecc. frammischiate con avvisi di cose cittadine.
Il numero, di cui si parlava, conteneva l’annunzio di un libro pubblicato in
quei giorni. Non è a credere che si trattasse di una edizione di Dante o di
Petrarca o d’un altro classico, ma semplicemente “la Smorfia” o sia “Il vero
mezzo per vincere all’estrazione dei lotti, o sia, una nuova lista generale contenente quasi tutte le
voci delle cose popolaresche e appartenenti alle Visioni e Sogni, con loro
numero, esposto per ordine alfabetico. Opera di Fortunato Indovino, da esso
estratta da Vecchi Libretti dell’Anonimo Cabalista, e di Albumazzar da
Carpinteri. Accresciuta di 400 voci, ed ora in questa terza edizione se ne
aggiunge 582 oltre delle 90 figure esprimenti le arti, il giuoco del Barone...
V’è annesso il giuoco romano, e i numeri delle contrade. Tre nuove Cabale
d’ignoto autore, le tavole astronumeralgebrate, quali saranno per la cabala di
Rutilio Benincasa...”. E chi ne ha più ne metta.
Luigi Natoli nel romanzo Ferrazzano, dove si recita la commedia "l'Amore beffato", con Ferrazzano nella parte di Florindo e Floristella nella parte di Rosaura.
La musica terminò di sonare, lo squillo di un campanello impose il
silenzio, una specie d’attore si affacciò da un lato della scena e annunziò il
titolo dello spettacolo: era “L’Amore beffato”. Un mormorio ridevole si propagò
per la sala, perché il pubblico capì che s’alludeva a una avventura capitata in
quei tempi a un signore, e che aveva fatto le spese della città. Si tirò il
velario; cominciava lo spettacolo.
La scena rappresentava una bella stanza, con la porta comune in
fondo, un armadio a destra, una specie di consolle a sinistra; innanzi, presso
l’armadio, un tavolino. Una giovane donna era seduta accanto il tavolino, era
l’attrice Floristella che sosteneva la parte di donna Rosaura ricca vedovella.
Ella in quel momento si lamentava col “destino crudele”, che la esponeva a
subire le ridicole pretese di Geronte, vecchio e gottoso, che per disposizione
del morto marito doveva impalmare la sua vedova, se era destinata a passare a
seconde nozze. Dopo un soliloquio lacrimoso, pieno di frasi pescate nel
frasario sentimentale degli arcadi, viene Florindo, che era Francesco Ferrazzano
il cui apparire sulla scena fu accolto da un mormorìo piacevole. S’aspettavano
fin dalle prime battute le consuete arguzie, ma stavolta Florindo era serio, il
che produsse una certa delusione. Egli diceva:
- Bene mio, che avete? Vi ho forse offesa?
- Ahimè! Se fossi offesa da voi, ne ringrazierei il cielo, perché
potrei dissipare appunto quello che mi ferirebbe; ma voi non c’entrate, anzi,
se è vero che mi amate, ne siete voi stesso offeso; e non da me.
- Dite dunque, perché siete cotanto afflitta? e perché io ne rimango offeso?
Allora Rosaura narra del vincolo impostole dal morto, e ricordatole
dal vecchio Geronte, il quale sarebbe venuto più tardi per ricevere da lei il
consenso.
- Ah cuor mio, come farò?
- E per questo voi siete così prostrata? Spianate la fronte, e
sollevate lo spirito; non passerà la sera che il signor Geronte ritirerà
l’impegno assuntosi.
- Come? Voi mi aprire il cuore alla speranza?
- Più che la speranza, vi dò la certezza.
In questo frattempo si sente rumore; è Geronte che viene. Florindo
dice in fretta:
- Su presto, una zimarra e un paio di occhiali e se l’avete, un
berretto dottorale. La buon’anima di vostro marito li aveva.
- Ah! in quell’armadio!
Aprono e in un batter d’occhio Florindo si trasforma in un dottore,
e dice a Rosaura:
- Sdraiatevi, e fingetevi ammalata di nervi, e secondatemi, senza
però tradirvi.
Hanno appena il tempo ella di buttarsi in una seggiola a bracciuoli,
egli in piedi innanzi a lei, tenendole il polso, e sussurrandole a voce bassa: –
Svenite, – che entra Geronte zoppicando.
Alla vista di Rosaura svenuta
grida:
- Che è successo?
Ma Florindo si pose una mano sulla bocca:
- Zitto, per amor del cielo! Non vedete che ha gli accessi
furibondi?
A queste parole Rosaura mandò un grido, e si contorce tutta con
grande spavento del vecchio Geronte; e Florindo mentre trattiene i polsi della
finta ammalata, gli spiega la natura del male che affligge, usando parole
scientifiche, che l’altro non capisce.
- La signora è afflitta da una malattia che in scienza si chiama “anafragisma”, la
quale consiste nell’ingrossamento del nervo maiuscolo e minuscolo che si
appella “callustron”, e serve a distinguere ciò che non c’è. Laonde avviene che
le “sistole” e le “diastole” invece di andare unite, si dividono in particelle;
che si collocano nel vuoto e formano quella zona che si dice la zona del “cataplus”.
Onde avviene che il “difaros”, ossia il “fenuscolo” diffuso per tutto il corpo,
diviene eccitabilissimo e produce le convulsioni… Ma che fate voi? trattenete
questo braccio!... Dunque, produce le convulsioni e genera la pazzia.
A queste parole Geronte lascia il braccio spaventato, ma Florindo lo
rimprovera:
- Ma trattenete il braccio!
- Ma se è pazza?
- Non lo è ancora. Voi siete il nonno di questa signora?
- Oh! che dite mai! nonno! sono il fidanzato…
Al sentir questo l’ammalata mandò altissime grida, e levatasi
repentinamente si gitta sopra Geronte con le unghia pronte a graffiarlo.
Il pover’uomo si tirò indietro spaventato, e Florindo freddamente
commenta:
- Non vi date pensiero, signor fidanzato, questi sono i primi
accenni della incipiente pazzia.
- Incipiente dite?
- Che cosa è la pazzia? “Idest insania vel dementia vel amentiaetc.” È una perturbazione
della mente, la quale si manifesta con atti disordinati; e di solito graffiando
e mordendo chi gli sta vicino. Da dove nasce ciò? dal Versiero “quod absit et quoqunque californius
exspettoratus” come dice il dotto Almagesto; e in certi casi è necessario
raccomandarsi ad un padre di san Basilio o ad un mago o stregone che cacci il
Versiero.
Rosaura intanto si dibatte, e minaccia di mordere Geronte, che va
indietreggiando, e quistiona Florindo; il quale dopo esserne pregato gli
promette di spedirgli uno stregone. E poiché Rosaura accenna a calmarsi, fa per
andarsene; ma Geronte salta su e grida che non vuol rimanere solo con Rosaura, e
fugge di qua e di là. Florindo ne approfitta e si nasconde rapidamente
nell’armadio. Il povero Geronte spaventato della sparizione di Florindo e di
trovarsi solo con Rosaura grida; ma in questa l’ammalata cade priva di sensi.
Dall’armadio Florindo con voce sepolcrale grida:
- Lascia in pace cotesta donna che mi appartiene!
A queste parole lo spavento di Geronte diventa terrore, la voce
continua che non gli dà tregua, se non quando Geronte avrà scritto che rinuncia
alle nozze; la qual cosa egli fa, contento di scapparsene. Allora Florindo esce
dall’armadio; Rosaura rinviene subito, e tutti e due ridono a crepapelle
Gli applausi fioccarono, e Ferrazzano annunziò che non ai comici
dovevano essere rivolti, ma all’autrice della farsa che era l’eccellenza della
signora marchesa di Geraci. E qui nuovi e più calorosi evviva e congratulazioni
alla nobile dama.
Nota: l'editore precisa che questa commedia, così come tutte le altre recitate nel libro da Ferrazzano, nascono dalla penna dello scrittore Luigi Natoli.
Era questo detto dei Travaglini o più modernamente dal nome del
proprietario, di S. Lucia; dove recitavano le compagnie dei comici; e che poi
rifatto, abbellito e prevalso il secondo nome, si adattò a teatro d’opera,
rivaleggiando con quello più grande dei musici detto di S. Cecilia; finchè
ingrandito prese il nome di Carolino; e fu il solo e glorioso teatro d’opera di Palermo, anche
quando, mutato il regime, fu intitolato al nome imperituro di Bellini. Allora,
nel 1775, era un piccolo teatro che di fuori non annunziava punto che
nascondesse una sala da spettacoli. Una tettoia difendeva la porta sulla quale
una tabella di legno portava dipinto lo scritto: “Teatro di Travaglini”; un
corridoio senza luce, umido, con le pareti grommose, conduceva all’ingresso del
teatro, in fondo a un breve spazio. Una sala capace di trecento persone e tre
file di palchi; non vi erano poltrone, che allora non si usavano, ma sedie
numerate; una grande lumiera pendeva dal soffitto. Di giorno bisognava
abituarsi al buio per potersi movere e non inciampare in qualche sedia, ma di
sera si illuminava e si vedeva bene la fioritura delle belle vesti e la
bianchezza delle carni sull’addobbatura rosso cupo dei palchetti.
L’illuminazione era a cera nella lumiera e nei trionfi dei palchetti, ad olio
sul palcoscenico. Il quale era più tosto angusto; aveva in giro gli stanzini
degli attori, piccoli e malmessi, alcuni, invece di porta, erano difesi da una tendina;
gli uomini stavano da una parte in tre stanzini comuni, le donne in due, pochi stanzini
erano privilegiati. L’attrezzatura si componeva di tre o quattro scene con le
rispettive quinte; le scene erano arrotolate in alto e trattenute da corde che
penzolavano da un lato.
In quel tempo vi agiva una compagnia condotta da un siciliano, che
godeva grande opinione di buon attore, e recitava nelle parti di padre nobile:
si chiamava Domenico Minniti, era nato per così dire in teatro, perché era
figlio di comici. I suoi attori erano siciliani, ma il “Tiranno” e la moglie
erano napoletani, Antonio Zardo e Giuliana Buzelle, che in arte recitava da Beatrice.
Era quasi tutta una famiglia, chè fra loro erano imparentati: padri, madri e figli recitavano
o prendevano parte della compagnia come attrezzisti o trovarobe. Ma Floristella
no; era una trovatella o per essere più esatti, una figlia dell’arte trovata in
un angolo della porta di casa di Ferrazzano una sera al ritorno dal teatro.
mercoledì 28 ottobre 2015
Luigi Natoli nel romanzo Fioravante e Rizzeri: don Calcedonio vende il "pupo" Carlo Magno.
Il giorno dopo don
Calcedonio uscì di buonora, e si recò al teatrino. Era commosso come se fosse
costretto a strapparsi una costola o meglio il cuore. Guardò tutti i paladini
messi in fila, che lo guardavano alla loro volta con gli occhi spalancati; e
pareva irresoluto se scegliere l’uno o l’altro. Ne giudicava l’armatura, ne
tentava le mosse, ne verificava le vesti. Chi era più bello? Orlando? Rinaldo?
Carlo Magno? Fioravante no; quello gli serviva. Chi scegliere? Avevano tutti
belle armature di nichel con ricami dorati, e sfolgoravano. Egli ne prese
quattro, e li distese sul tavolato, poi su quattro pezzi di carta scrisse quattro
numeri, li attorcigliò, li chiuse nel cappello, li scosse e li buttò in terra.
Raccattò il più lontano; segnava il numero uno; corrispondeva a Carlo Magno.
Trasse un sospiro dal petto: era proprio quello che desiderava. Avvolse il
paladino in giornali, se lo cacciò sotto il soprabito e uscì.
Andò al palazzo del duca
di Terrabruciata, una duchea di recente formazione, il cui proprietario ricco a
milioni aveva fama di essere un raccoglitore di scartoffie, che prendeva per
codici antichi, di marmi tolti a vecchie fontane, che prendeva per greci o
romani, di lame arrugginite che egli credeva scavate nelle terre sacre
dell’antichità. Ma in compenso aveva una buona collezione di bardature, di
stoffe, di strumenti, di cose appartenenti al folclore. Gli mancava un paladino
per avere una collezione completa o quasi.
Don Calcedonio si
presentò al signor duca, e scioltosi il pupo di sotto il soprabito, mostrandolo
in tutto il suo splendore, gli disse:
- Le piace?
- Ehm! non c’è male.
Quanto?
- Non dico, ma la sola
armatura m’è costata circa mille lire.
- Troppo caro!
- Io non ho fatto
prezzo; vossignoria è buon giudice, e io vengo a offrire il mio paladino perché
so che va in cerca di cose caratteristiche di regione…
- Siete contento di
seicento lire?
- Ho detto che faccia
vossignoria.
Don Calcedonio uscì dal
palazzo con seicento lire e con gli occhi umidi di lagrime.www.ibuonicuginieditori.it
Luigi Natoli nel romanzo Fioravante e Rizzeri: don Calcedonio organizza l'opera dei pupi in casa del duca di Terrabruciata
Era un bell’affare quello ideato dal signor duca di
Terrabruciata! Non s’imbarazzava don Calcedonio della scelta, potendo egli al
modo stesso dare una rappresentazione tratta da Buovo d’Antona come da Orlando
o da Bradamante e Ruggero; né si preoccupava di avere chi lo coadiuvasse; né di
dover portare qualche altro paladino; ma, piuttosto della lingua che avrebbe
dovuto usare. Egli adoperava il linguaggio fabbricato da lui, tra italiano e
dialettale, spesso
dialetto con desinenze italiane o lingua con desinenze del dialetto; il
che formava un cibreo saporitissimo, al quale davano colore le frasi più
pittoresche e più volgari del vernacolo anzi del gergo, messe in bocca ai
paladini. Ma poteva adoperare lo stesso linguaggio nella sala del duca? Ecco il
busillis!
Andò intanto ad avvertire Cosimo, il suo aiutante, che sapeva imitare le voci di donne; e non potendo portare su l'organino in casa d'altri, andò a trovare un vecchio suonatore di violino, perché al modo antico, nascosto nel teatro, accompagnasse col solito mi, do, re, i combattenti. Poi scelse fra i vari cartelloni dipinti quello che diceva: "Orlando combatte con Ferraù di Spagna e lo abbatte".
La sorpresa delle signore e delle signorine vedendo il
cartellone, e le risate che accompagnarono le papere infioranti il linguaggio
di don Calcedonio, lo spasso che quei combattimenti suscitarono non si dicono; solo diremo che
alla fine (lo spettacolo non durò più di mezz’ora) don Calcedonio ricevette dal
mastro di casa una busta contenente cinque biglietti da cento lire. Fu un altro
spettacolo. Si aspettava che il duca gli regalasse duecento lire: ma
cinquecento? Si profuse in ringraziamenti; e per non essere da meno del signor
duca, ne regalò alla sua volta, trenta al suonatore e settanta al suo aiutante;
il resto lo intascò lui, ma cominciò a pensare a quello che poteva fare con quelle
quattrocento lire piovutegli dal cielo.
lunedì 28 settembre 2015
Luigi Natoli nel romanzo L'Abate Meli: le catacombe dei Cappuccini di Palermo.
Il convento piccolo e all'aspetto povero,
si mostrava aderente alla chiesa; alto due piani, con le finestrelle piccole;
e sovrastava alle famose sepolture o catacombe, ove i cadaveri, ridotti in
scheletri vestiti di sacco o di roboni, stanno schierati in più ordini. Spettacolo
triste e nel contempo riprovevole e ridicolo dell'uomo, in atteggiamenti, che
tolgono all'onestà della morte ogni grandezza ed ogni profondità di mistero. Ma
in quei tempi, pareva rendere ai vivi l'orrore della vita, con lo spettacolo
orrendo di quel che diverremo: ossa e null’altro. L'illusione che sotto la
pietra e dentro la bara, il corpo rimanga intatto, si distrugge; le ossa sono
tutte simili e noi non riconosciamo le fattezze amate nei sogghigni dei teschi.
Luigi Natoli
Luigi Natoli nel romanzo L'Abate Meli: la festa della Madonna Assunta ai Cappuccini di Palermo il 15 agosto.
Era il pomeriggio. La via era affollata
di gente, perché era la vigilia dell'Assunta, festa solenne dei Cappuccini.
Gente che andava e gente che veniva: un viavai continuo: portantine di tutti i
colori e carrozze padronali, carretti, pedoni; questi in maggior numero, uomini
in giamberga e in giacca, donne col manto chiuso nel naso, lasciando liberi gli
occhi neri e fulgidi; ragazzi che empivano la strada dei loro cicalecci;
venditori di acqua, che la portavano sul fianco, coi bicchieri infilati in un
ordegno di ferro; o di semi di zucca, o di ceci abbrustoliti: tutta gente che
vociava, nel lungo tratto di strada.
Allo svolto della strada che conduceva
ai Cappuccini, la folla era più fitta. Delle baracche cucinavano, delle altre
facevano focaccie, qui una tenda vendeva dolciumi, lì una tavoletta esponeva
Madonne di argilla, coricate con le mani stese ed aperte, vestite di bianco col
manto azzurro; grandi e piccole; più in qua l'«incatena corone», torcendo i
fili di ottone intorno ai grani del rosario; e fra tutti, le piccole bare,
con madonne di cera, illuminate, portate da quattro ragazzi che gridavano con
le vocine squillanti: «viva Maria». Ma su tutto ondeggiava un odore di fritto,
tra il fumo delle padelle, nelle cucine improvvisate.
Fra questa folla varia e multiforme
andava il Meli discorrendo col giovane che gli camminava a fianco.
Chiacchierando così, e scansando il
continuo andirivieni, erano giunti al convento. La folla era più fitta e bisognava
fermarsi. Dalla croce di legno, alta sopra uno zoccolo, fino a quella specie di
portico pieno zeppo di... miracoli o «ex voto», dipinti da pittori da
strapazzo, la gente si ammassava. La chiesa era piccola e non c'entrava tutta;
gran parte sostava. Un frate raccoglieva l'elemosina.
Eppure in quel viavai di gente allegra,
in mezzo a quel cicaleccio, a quelle grida continue, nel convento un uomo
moriva. E aspettava con l'ansia di chi teme di non fare in tempo.
Il Meli attraversò il portico dinanzi la chiesetta,
piegò la testa, vedendo nella navata l'immagine della Madonna, coricata fra le
candele accese; e salì le scale del convento.
Nella foto: La Madonna Assunta che si venera nella chiesa di S. Maria della Pace (Cappuccini) di Palermo.
Luigi Natoli nel romanzo: L'Abate Meli. - Riflessione del poeta sulla sua "genialità" durante il frugale pranzo.
"Questa acciuga è ottima, e accompagnata dal pane è
squisita, non c'è che dire. Però, mi piacerebbe di più se avessi una credenza o
un ripostiglio, dal quale potrei prendere un bel pezzo di caccia. La quistione
è che io sono un poeta, e perciò vivo quasi nella miseria: “Pictores,
sculptores et cantores” con quel che segue. Vero è che mi danno del genio, ma
preferirei che me lo mutassero in danari. Col genio non si vive. Per esempio,
ho una sorella pazza che mi lascia senza desinare. Bene. Apro il ripostiglio e
prendo un altro desinare, dai maccheroni alla frutta, senza tralasciare gli
intingoli e i “piattini”... Quei domenicani hanno festeggiato il loro nuovo
provinciale con un banchetto di ventiquattro piatti, settanta piattini, oltre i
gelati e la frutta... Non dico che questo mi sarebbe piaciuto e toccato, ma...
Il genio!... Se mi dessero l’equivalente, io non patirei tanto..."
Beatu iddu chi campa sfacinnatu
Comu l’antichi, e cu li propri soiSi cultiva lu campu ereditatu...
“Io non ebbi nemmeno questo: la casa che acquistò mio padre, buon’anima!
E passa in libertà li jorna soi
tranquillu, senza debiti, né pisi,
senza suggizioni e senza noi!... (*)
“Ah! un vivere sì beato! Che ci vorrebbe? Una bella e
buona abazia, che mi fornisca tanto da vivere come gli antichi. Invece, ho da
fare il medico! E debbo insegnare la chimica ai giovani! La medicina e la
chimica non sono amiche delle Muse...
(*) Beato chi campa sfaccendato - (Meli non intende chi non fatica ma chi non ha il peso degli obblighi derivanti dallo stare in società) - come gli antichi, e con i propri soldi - Si coltiva il campo ereditato...
E passa in libertà i suoi giorni - tranquillo, senza debiti, né pesi, senza soggezioni e senza noie...
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