venerdì 30 ottobre 2015

Luigi Natoli nel romanzo Gli Schiavi: il tempio di Venere Ericina.

Erice sorgeva in cima ad un monte isolato sopra Drepano, e il tempio famoso era visibile da ogni parte, poiché spuntava oltre la muraglia che lo circondava, eretta o rafforzata dai Romani dopo la conquista della città. Già Afrodite aveva mutato il nome greco in quello latino di Venere; ma i Sicilioti e i Siculi ellenizzati continuavano a chiamarla Afrodite.
Il nome primitivo datole dai naturali dell’isola (giacchè si tratta di una divinità sicana) è ignoto. Narra Virgilio, nel V libro del poema, che Enea, istituendo le feste pel compleanno della morte di Anchise, suo padre, avesse eretto sul monte un tempio alla dea Venere.
Essa fu madre di Erice, figlio di Bute; il quale Erice fu ucciso da Ercole, e sepolto nel monte, che da lui prese il nome. Invenzione più poetica che altro.
Il culto di Afrodite Ericina, o Venere, crebbe con gli anni, e il suo tempio, mèta di pellegrinaggi, era il più ricco del mondo e rivaleggiava con quello di Pafo. Forse a questo valeva molto la presenza delle jerodule, che avevano in custodia il tempio. Le jerodule, tutte giovani e belle, erano ad un tempo sacerdotesse ed esercitavano la sacra prostituzione; il rito era antico, e nessuno sapeva quando fosse cominciato. Non uscivano mai fuor dalle mura che circondavano il tempio, se non quando erano vecchie; avevano case, e vivevano di comune accordo. Diciassette città per ordine dei Romani provvedevano il tempio di quanto occorreva, e duecento soldati vigilavano alla sua sicurezza.
Quando la bireme di Cleone ancorò nel porto di Drepano, s’aspettava il ritorno delle colombe sacre ad Afrodite. Ogni anno miriadi di colombe fra i canti delle jerodule prendevano il volo per la Libia, e dopo nove giorni tornavano. Erano precedute da una colomba rossa, nella quale si intendeva impersonata la Dea. Il ritorno era salutato da canti gioiosi e da riti.
Lungo la strada che dalla pianura saliva per l’erta, una folla d’uomini, di donne, di ragazzi, si recava ad Erice, che sorgeva in disparte del tempio, e più in basso; e dalla acconciatura dei capelli, e dal colore preferito delle vesti si distinguevano fra le altre abitanti di Lilibeo, quelle di Segesta, quelle di Selinunte. Erano liete e ciarlavano.
Era l’alba: il cielo, imbiancatosi all’orizzonte, era sgombro di nuvole: solo qualche lieve sfilacciatura si andava colorando in roseo. Via via che i pellegrini ascendevano il monte, vedevano spiegarsi e allargarsi tutto intorno il bello, grandioso ed orrido paesaggio. Da una parte l’occhio correva a Drepano, simile a una falce caduta in una immensa pozza di calce, per via delle saline che brillavano di bianco; e più lontano, tra il dubbio vapore che saliva dalla terra ridestatasi, si vedeva Lilibeo e la distanza avvolgeva la pianura in una cerula e indistinta nube. Oltre Drepano, oltre Lilibeo,  il mare azzurro, senza confine; e le isole, il capo Egitallo, che già si doravano al sopravvenire dell’aurora. Ma girando il monte, mutava la scena. Altri monti e ancora monti, quali ripidi tagliati a picco sul mare, che qui prendeva una tinta di argento; quali succedentisi l’un dopo l’altro entro terra, come in uno scenario fantastico. S’aprivano seni fra le rocce; ecco le acque putizianese; ecco biancheggiare, tra il sì e il no dei capi, Cetaria ; e più lontana ancora la punta dei monti segestani. Dentro terra, boschi e monti or coperti di verde, ora brulli. E l’una e l’altra visione si alternavano sotto lo sguardo ammiratore dei pellegrini, che il sole, sorgente dalle onde, rivestiva d’oro.
Nella foto: il tempio di Venere Ericina, a Erice.
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