Il culto di Afrodite Ericina, o Venere,
crebbe con gli anni, e il suo tempio, mèta di pellegrinaggi, era il più ricco
del mondo e rivaleggiava con quello di Pafo. Forse a questo valeva molto la
presenza delle jerodule, che avevano in custodia il tempio. Le jerodule, tutte
giovani e belle, erano ad un tempo sacerdotesse ed esercitavano la sacra
prostituzione; il rito era antico, e nessuno sapeva quando fosse cominciato.
Non uscivano mai fuor dalle mura che circondavano il tempio, se non quando erano
vecchie; avevano case, e vivevano di comune accordo. Diciassette città per
ordine dei Romani provvedevano il tempio di quanto occorreva, e duecento
soldati vigilavano alla sua sicurezza.
S’aspettava il ritorno delle colombe
sacre ad Afrodite. Ogni anno miriadi di colombe fra i canti delle jerodule
prendevano il volo per la Libia, e dopo nove giorni tornavano. Erano precedute da
una colomba rossa, nella quale si intendeva impersonata la Dea. Il ritorno era
salutato da canti gioiosi e da riti.
Lungo la strada che dalla pianura saliva
per l’erta, una folla d’uomini, di donne, di ragazzi, si recava ad Erice, che
sorgeva in disparte del tempio, e più in basso; e dalla acconciatura dei
capelli, e dal colore preferito delle vesti si distinguevano fra le altre
abitanti di Lilibeo, quelle di Segesta, quelle di Selinunte. Erano liete e
ciarlavano.
La città era rumoreggiante per la prossima festa. Era detta
“catagogia”, come “anagogia” era chiamata la partenza della Dea. Nella
“catagogia” si celebrava il ritorno alla sua sede, lasciata per breve tempo, ma
che pareva lungo, quasi la Dea volesse abbandonare Erice. In ogni casa erano
festoni di mirto e di rose, e ardeva dinanzi ad una piccola immagine di
Afrodite il fuoco, dentro un’ara portatile o un tripode. Chi poteva, spingeva
al tempio capre o pecore per il sacrificio; portava in canestri le colombe o i
frutti che la stagione dava; e per tutto era un affrettarsi di cittadini e di
schiavi, un andare e venire, un tramestìo, un cicaleccio da non si dire. E
attorno soldati, che raccomandavano l’ordine, senza poterlo ottenere.
Cleone aveva condotto con sé dieci
schiavi e cinque ancelle, e aveva ordinato al suo navarca che con un numero di
marinai libici si unisse con lui nel pellegrinaggio. I soldati, schierati lungo
la via del Tempio, mormoravano parole piccanti alle donne; e alle belle
raccomandavano ridendo di rinchiudersi tra le jerodule. E il cammino procedeva
tra una fioritura di motti grassi e scurrili e di risate.
Il tempio sorgeva su una sommità isolata,
e vi si giungeva mediante un ponte steso fra le due cime, che pareva si
contendessero il primato. Era in un recinto di mura, e la porta ne era guardata
da parecchi soldati. Dietro di questa si allargava una vasta spianata, ad una
estremità della quale sorgeva il tempio. Non era magnifico, e nella costruzione
dimostrava il carattere arcaico; scoperto, ma tutto di marmi preziosi e bronzi
dorati, oro ed argento a profusione. V’erano candelabri ricchissimi, doni offerti,
“ex voto”, stoffe rare, statue e oltre l’ara, sopra un altare, l’immagine della
Dea, non quale si vede effigiata dallo scalpello greco, ma di forme arcaiche,
rigide, con un volto che incuteva spavento per la sua immobilità ieratica,
coperta di vesti e di monili preziosi.
Le jerodule cantavano un inno, e i
sacerdoti sacrificavano. Non vittime umane, come quando Erice cadde sotto i
Cartaginesi, ma pecore, capre ed altri animali, coronati di rose.
Cleone ed Egle erano da poco arrivati
innanzi al tempio, quando s’intese un grido:
- Vengono! Vengono!
Un movimento febbrile commosse la folla:
tutti gli occhi mirarono con ansia un gruppo che apparve volando nell’estremo
orizzonte, e che s’ingrandiva via via che s’avvicinava. Erano le colombe.
Allora da mille e mille bocche si levò un canto di ringraziamento: le jerodule,
i sacerdoti, unirono il loro inno; tutto il monte parve animarsi, fumare e
cantare; e su quel canto svolazzarono le colombe, si posavano sulle cornici,
sulle scannellature, sul frontone del tempio; alcune seguendo la colomba rossa,
immagine della Dea, penetrarono nel sacrario spaventate dall’immenso clamore.
Nella foto: lapide a Venere Ericina.
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