Protagonista unica nel suo
genere, Giovanna Bonanno – meglio conosciuta come la Vecchia dell’Aceto – che crea
nella Palermo settecentesca un “giro
d’affari”, avente per oggetto la famosa “acqua” dal costo di due onze e sei
tarì, “per togliere di mezzo liti e
dissapori, impedire mali maggiori e dare la pace alle famiglie” come lei
stessa afferma durante il suo interrogatorio del 9 ottobre 1788.
In realtà Giovanna Bonanno,
lo strano personaggio realmente esistito che Luigi Natoli presenta con la solita diligenza, vendeva ai
suoi “clienti” l’aceto per i pidocchi, un
potente veleno che, essendo insapore, poteva essere mescolato al vino ed
utilizzato per eliminare qualunque individuo che era in qualche modo d’ingombro
ad un altro. I sintomi erano dati da dolori atroci allo stomaco, vomito, e la
morte sopravveniva nel giro di ventiquattr’ore.
Da qui il
prospero giro d’affari di
Giovanna Bonanno, detta zà Anna, che giustificava così: “Che cos’è la vita di una persona, di fronte
alla tranquillità e alla felicità di tante altre? Una donna maritata contrae
un’amicizia…siamo di carne e possiamo peccare. Bene: essa vive in peccato
mortale e col pericolo che il marito ammazzi lei e l’innamorato. Due morti. Il
marito è preso ed impiccato: e son tre; e la casa va in rovina, e se ci sono
figlioletti, rimangono in mezzo alla strada…Bene: sacrificando il marito si
salvano la moglie e il gano; i quali si sposano e si liberano del peccato, i
figli restano con la madre e la pace ritorna in quella casa. Ecco, figlia mia,
che io ho fatto del bene…non è vero?”
Luigi Natoli fa conoscere la
Vecchia dell’Aceto, nel suo omonimo romanzo. Dà qualche traccia della
biografia, descrivendo gli oscuri affari di Giovanna Bonanno che portano a tantissimi
casi di morte per avvelenamento.
“Giovanna Fileccia o la
comare Giovanna, come più comunemente era intesa, era vedova due volte, la
prima di un Fileccia e la seconda di un Bonanno. Siccome aveva cominciato a far
la levatrice al tempo del primo marito, aveva nella professione mantenuto quel
nome, che era notorio. Era abile, e si prestava facilmente a pratiche
delittuose, che essa compiva con la coscienza di far bene, perché miravano a
conservare l’onore e la pace delle famiglie”.
Viene rinchiusa nel carcere
dell’Inquisizione per intervento di un nobile:
“Era bastata l’accusa del
nobile cavaliere perché l’inquisitore monsignor Ciafaglione senz’altro la
facesse arrestare. Un processo fu imbastito; dopo un anno Giovanna Fileccia,
con altre due disgraziate fu condotta fra gli sbirri, famuli e confraternite, alla
porta della Chiesa di S. Ippolito con una cesta appesa al collo, il bavaglio,
le braccia legate dietro le reni e lì fu letta la sentenza che le condannava
tutte e tre come fattucchiere al carcere del Sant’Offizio per dieci anni. Dieci
anni! Chiusa in una segreta del carcere delle donne, senza luce, senz’aria, con
poco nutrimento, peggiorato da digiuni e penitenze.”
Quando esce dal carcere ha un
terribile aspetto
“Alcuni ragazzi che si
avvoltolavano fra le immondizie, scacciando i maialetti, a vederla comparire si
alzarono a guardarla curiosi e cattivi; ella era così brutta che pareva uscita
dall’inferno”
E va a vivere in una stamberga in
un vicolo dell’Albergheria
“Cominciò ad andare in giro con un
saccone sospeso al braccio, accattando alle botteghe qualche po’ di pane,
qualche rimasuglio di formaggio e nelle osterie qualche avanzo di pesce o di
grassi: talvolta usciva fuori porta S. Agata e andava a raccogliere erbe
mangerecce nei campi. L’avere una volta indicato a una donna dei rimedi per
guarire un bimbetto lattante, suggeritole dalla sua antica professione, la fece
credere una di quelle donne che conoscono i mali meglio dei medici e fabbricano
medicine e filtri misteriosi. Da questo a trasformarsi nella credenza del
vicinato in fattucchiera non ci volle molto; cominciarono a ricorrere a lei per
domandarle incantesimi e disincantesimi, fatture e filtri magici”
Si trasferisce poi in un lurido
vicolo del quartiere del Capo
“A una vecchia sua vicina
di casa disse di chiamarsi Vanna; quella, un po’ sorda, intese Anna; la chiamò
zà Anna e così ne riferì il nome alle
altre comari; nel vicinato la chiamavano zà Anna:essa non rettificò, trovando
che la trasformazione del suo nome l’aiutava a far perdere le sue tracce. Sospettosa
com’era si chiudeva in casa, e non bazzicava con nessuno e questa sua vita e
quelle erbe cominciarono a eccitare intorno a lei a fantasia dei vicini; si
cominciò a supporre che fosse una fattucchiera, che facesse malìe e sortilegi;
la supposizione divenne certezza e questa fu la seconda trasformazione. L’esser
creduta maliarda la circondò se non di rispetto di paura, e la liberò dalle
beffe dei monelli. Così erano passati undici anni durante i quali Giovanna
Bonanno era sempre più scesa in basso”
Per caso, mentre si trovava nella
bottega dell’aromatario Saverio La Monica, suo inconsapevole fornitore, scopre
gli effetti dell’aceto per i pidocchi che incidentalmente una
bambina aveva bevuto, e da qui nasce la sua idea:
“Ella rimase stupita; il lieve rimorso di aver sacrificato quella
povera bestia fu vinto, annullato dalla soddisfazione della esperienza
riuscita. Ora non c’era più dubbio; il veleno era potente: non mancava che la
clientela...”
Da qui ha inizio la lunga serie
di avvelenamenti, con la vendita di caraffine della sua “acqua”, dietro il
corrispettivo di due onze e sei tarì...
Luigi Natoli: La vecchia dell’aceto – Romanzo storico siciliano ambientato
nella Palermo del 1700. La storia di Giovanna Bonanno, l’avvelenatrice passata
alla storia come La vecchia dell’aceto. L’opera
è costruita e trascritta dal romanzo originale, pubblicato a puntate in
appendice al Giornale di Sicilia nel 1927.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 562 – Prezzo di
copertina € 22,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (Vendita a mezzo corriere in tutta Italia) Contattaci alla mail ibuonicugini@libero.it o al whatsapp 3894697296
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