Era la moglie di don Agostino; una
giovane di forse ventidue o ventitrè anni; non perfettamente bella, ma
avvenente, e negli occhi neri e vellutati, nella bocca tumida, rivelante una
natura sensuale avida di piaceri e di piacere. Nell’aspetto aveva qualcosa di
fine, di superiore al suo ceto: le mani erano fine e lunghe, i piedi piccoli:
aveva un gusto naturale nell’acconciarsi, una certa eleganza nel camminare. Se
avesse preso a marito un avvocato, un giudice o un impiegato del Ministero,
ella avrebbe sostenuto benissimo e senza imbarazzo il suo posto di signora.
Perciò nel Cortigliazzo, dove abitava,
le vicine, pettegoleggiando fra loro, la canzonavano, la chiamavano per
dileggio la principessa. E veramente ella era figlia d’ignoti: qualcuno appena
nata, avvolta in pochi lini e in un pezzo di coperta, l’aveva portata alla
Ruota una notte d’aprile. L’aveva ficcata dentro l’ordegno, e datogli un giro,
e sonato il campanello se n’era andato. La bimba era stata raccolta dalle donne
addette all’Ospizio. Non le trovarono nessun pezzo di carta coi nomi, nè un
segno sui lini, non una medaglia; la coperta non aveva nulla di particolare:
coloro che l’avevano esposta non volevano dunque che un giorno ella potesse
essere riconosciuta. Essa aveva soltanto un piccolo segno o voglia. Poiché quel
giorno, nell’Ospedale, avevano consacrato un altarino nuovo a Santa Rosalia, in
capo a uno dei corridoi, la superiora non sapendo che nome dare alla piccina,
la fece battezzare con quelli di Rosalia Pellegrina.
Ma la piccina, dopo due o tre giorni
fu rilevata da una donna che voleva allevare una trovatella per guadagnare
qualche cosa. Disse di chiamarsi Anna Pantò; fornì buone informazioni, e portò
via la piccina. Se non che Anna Pantò, dopo un mese, ebbe dal marito ubriaco
una coltellata mortale; l’assassino fuggì, la povera donna gridò al soccorso, e
le vicine accorse giunsero appena in tempo per raccogliere l’ultima parola: –
“Rosalia!” – e l’ultimo sospiro.
Una donna che pareva la moglie di un
artigiano agiato o di un impiegatuccio, si fermò e più che la morta guardò la
piccola Rosalia che piangeva.
Disse dove abitava e portò seco la
piccina.
Così Rosalia trovò un’altra mamma, e
crebbe in una casa migliore e sebbene modesta, non povera; e fino a tredici
anni credette di esser proprio figlia di quei borghesucci. Poi seppe che era
una trovatella per la malignità di una compagna di scuola, sua vicina di casa,
che probabilmente l’aveva sentito dire in casa, e per bizza lo ripeteva. Ma ciò
non raffreddò l’affetto fra lei e la sua madre adottiva, che continuò a
considerare come la sua vera mamma. Per educarla più finemente (era così
gentile la fanciulla!) a sei anni l’avevano mandata alla scuola del Collegio di
Maria dell’Olivella, dove imparava qualche cosa di leggere e far la firma, il
cucito, il ricamo, e far trine e passamani di filo, di seta, d’oro e d’argento
secondo quanto era prescritto dalle tavole di istituzione del 1721. Rosalia non
essendo nobile, né figlia di magistrati, frequentò la sezione riservata alle
fanciulle del suo ceto: ma vi fece progressi; era intelligente, svelta,
accurata; e aveva gusto. I suoi ricami erano perfetti; le sue trine parevano
tessute da dita di fata. Quando morì don Ambrogio, lasciando la moglie e la
figlia adottiva nella povertà, che non aveva rendite, questa perizia fu la
risorsa delle due donne. Michela raccomandandosi a questo e a quello, e
specialmente al suo confessore, poté avere delle commissioni: Rosalia le
eseguì, e con tanta bellezza, che cominciò a farsi una clientela, e le
commissioni fioccavano. Gliene venivano anche dalle dame; e non era raro che
qualche carrozza signorile si fermasse dinanzi alla umile casa della via Grande
del Castello, dove la Belviso, dopo la morte del marito, era andata ad abitare.
Nè era raro che Rosalia andasse in casa di qualche dama. Si trovò così in
contatto con persone ricche, titolate, eleganti, che vivevano nel lusso: e
cominciò a essere ambiziosa. Sentiva che avrebbe saputo vestirsi anche lei con
una certa eleganza, e abitare in belle case e comandare servitorame, e poiché i
mezzi c’erano, cogliendo a pretesto che per una fanciulla che aveva necessità
di frequentare case di signori, era vestita maluccio, pretese vestiti più fini
e più eleganti.
Michela fece qualche obiezione: eran
povera gente, non dovevano stendere le gambe più del lenzuolo; bisognava
pensare a farsi un po’ di dote; ma finalmente cedette alla figlia. La quale non
ricorse all’opera della sarta; e dalle sue mani produsse un piccolo capolavoro.
Quando indossò la prima volta il suo vestito, per andare da una baronessa,
Michela la guardò con ammirazione e quasi con orgoglio, ed esclamò:
- Sembri la figlia di un principe!
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