martedì 5 maggio 2020

Luigi Natoli: Rosalia. Tratto da: La vecchia dell'aceto.


Era la moglie di don Agostino; una giovane di forse ventidue o ventitrè anni; non perfettamente bella, ma avvenente, e negli occhi neri e vellutati, nella bocca tumida, rivelante una natura sensuale avida di piaceri e di piacere. Nell’aspetto aveva qualcosa di fine, di superiore al suo ceto: le mani erano fine e lunghe, i piedi piccoli: aveva un gusto naturale nell’acconciarsi, una certa eleganza nel camminare. Se avesse preso a marito un avvocato, un giudice o un impiegato del Ministero, ella avrebbe sostenuto benissimo e senza imbarazzo il suo posto di signora. 
Perciò nel Cortigliazzo, dove abitava, le vicine, pettegoleggiando fra loro, la canzonavano, la chiamavano per dileggio la principessa. E veramente ella era figlia d’ignoti: qualcuno appena nata, avvolta in pochi lini e in un pezzo di coperta, l’aveva portata alla Ruota una notte d’aprile. L’aveva ficcata dentro l’ordegno, e datogli un giro, e sonato il campanello se n’era andato. La bimba era stata raccolta dalle donne addette all’Ospizio. Non le trovarono nessun pezzo di carta coi nomi, nè un segno sui lini, non una medaglia; la coperta non aveva nulla di particolare: coloro che l’avevano esposta non volevano dunque che un giorno ella potesse essere riconosciuta. Essa aveva soltanto un piccolo segno o voglia. Poiché quel giorno, nell’Ospedale, avevano consacrato un altarino nuovo a Santa Rosalia, in capo a uno dei corridoi, la superiora non sapendo che nome dare alla piccina, la fece battezzare con quelli di Rosalia Pellegrina.
Ma la piccina, dopo due o tre giorni fu rilevata da una donna che voleva allevare una trovatella per guadagnare qualche cosa. Disse di chiamarsi Anna Pantò; fornì buone informazioni, e portò via la piccina. Se non che Anna Pantò, dopo un mese, ebbe dal marito ubriaco una coltellata mortale; l’assassino fuggì, la povera donna gridò al soccorso, e le vicine accorse giunsero appena in tempo per raccogliere l’ultima parola: – “Rosalia!” – e l’ultimo sospiro.
Una donna che pareva la moglie di un artigiano agiato o di un impiegatuccio, si fermò e più che la morta guardò la piccola Rosalia che piangeva.
Disse dove abitava e portò seco la piccina.
Così Rosalia trovò un’altra mamma, e crebbe in una casa migliore e sebbene modesta, non povera; e fino a tredici anni credette di esser proprio figlia di quei borghesucci. Poi seppe che era una trovatella per la malignità di una compagna di scuola, sua vicina di casa, che probabilmente l’aveva sentito dire in casa, e per bizza lo ripeteva. Ma ciò non raffreddò l’affetto fra lei e la sua madre adottiva, che continuò a considerare come la sua vera mamma. Per educarla più finemente (era così gentile la fanciulla!) a sei anni l’avevano mandata alla scuola del Collegio di Maria dell’Olivella, dove imparava qualche cosa di leggere e far la firma, il cucito, il ricamo, e far trine e passamani di filo, di seta, d’oro e d’argento secondo quanto era prescritto dalle tavole di istituzione del 1721. Rosalia non essendo nobile, né figlia di magistrati, frequentò la sezione riservata alle fanciulle del suo ceto: ma vi fece progressi; era intelligente, svelta, accurata; e aveva gusto. I suoi ricami erano perfetti; le sue trine parevano tessute da dita di fata. Quando morì don Ambrogio, lasciando la moglie e la figlia adottiva nella povertà, che non aveva rendite, questa perizia fu la risorsa delle due donne. Michela raccomandandosi a questo e a quello, e specialmente al suo confessore, poté avere delle commissioni: Rosalia le eseguì, e con tanta bellezza, che cominciò a farsi una clientela, e le commissioni fioccavano. Gliene venivano anche dalle dame; e non era raro che qualche carrozza signorile si fermasse dinanzi alla umile casa della via Grande del Castello, dove la Belviso, dopo la morte del marito, era andata ad abitare. Nè era raro che Rosalia andasse in casa di qualche dama. Si trovò così in contatto con persone ricche, titolate, eleganti, che vivevano nel lusso: e cominciò a essere ambiziosa. Sentiva che avrebbe saputo vestirsi anche lei con una certa eleganza, e abitare in belle case e comandare servitorame, e poiché i mezzi c’erano, cogliendo a pretesto che per una fanciulla che aveva necessità di frequentare case di signori, era vestita maluccio, pretese vestiti più fini e più eleganti. 
Michela fece qualche obiezione: eran povera gente, non dovevano stendere le gambe più del lenzuolo; bisognava pensare a farsi un po’ di dote; ma finalmente cedette alla figlia. La quale non ricorse all’opera della sarta; e dalle sue mani produsse un piccolo capolavoro. Quando indossò la prima volta il suo vestito, per andare da una baronessa, Michela la guardò con ammirazione e quasi con orgoglio, ed esclamò:
- Sembri la figlia di un principe!

Luigi Natoli: La vecchia dell'aceto. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1700. La storia di Giovanna Bonanno, l'avvelenatrice passata alla storia come La vecchia dell'aceto. 
L'opera è ricostruita e trascritta dal romanzo pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1927
Pagine 562 - Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
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