giovedì 30 aprile 2020

Luigi Natoli: La piazza Marina nel 1401. Tratto da: Il paggio della regina Bianca


La vasta piazza Marina in Palermo era quasi deserta in quell’ora mattutina del mese di maggio del 1401; e l’ampia mole dello Steri vi proiettava un’ombra lunga e trasparente. 
In quel tempo, la piazza Marina era assai più vasta di quel che è oggi, e serbava ancora le tracce di seno di mare prosciugato. Il porto, ridotto ora alla Cala, era più profondo; le acque del mare si spingevano su un tratto della odierna via Porto Salvo, lambendo quasi il muro del palazzo delle Finanze e un tratto della piazza della Fonderia. 
Più di due secoli prima bagnavano la scogliera sotto la torre di Baych, o di porta di Mare, che si apriva dietro la parrocchia di S. Antonio; poi, ritraendosi, o respinte da disseccamenti artificiali, avevan lasciato asciutto un lungo tratto, sul quale già sorgevano case e correvano nuove strade. Il Cassaro, o via Marmorea – come si chiamava ufficialmente, – si arrestava però alla porta di Mare, che era rimasta, intatta fra le due torri di guardia, come erano rimaste tuttavia in piedi le mura della antichissima città, sebbene oramai inutili. 
La piazza Marina, così detta perché da prima era seno di mare, da più d’un secolo era prosciugata; essa era chiusa dalla parte di mezzogiorno dalle mura della Kalsa, qua e là abbattute, e dalla parte di levante da uno sprone di terra, (ancor visibile nello stereobate su cui sorgono l’Hotel de France, e il palazzo dell’Intendenza,) il quale finiva sulla Cala, con una chiesa, sotto la quale si agganciava la catena da chiudere il porto; dal che la chiesa prese il nome di S. Maria della Catena.
Questo sprone, nei tempi antichissimi formava un molo naturale, difendeva e proteggeva, il porto profondo, a cui la città doveva il suo nome greco: Panormo (tutto porto). Dalla parte esterna, sul mare, al limite del quartiere arabo della Kalsa, e cioè dove ora corre la via Butera, su questo sprone era un borgo di Greci, con la loro chiesa di S. Nicolò. Da loro prese il nome la porta, che, rifatta, serba fino ad oggi il nome di Porta dei Greci.
La piazza Marina era dunque compresa fra questo sprone più elevato, la parte alta della Kalsa, e giungeva fin presso allo sbocco della via del Parlamento, comprendendo la via Bottai e l’area del palazzo delle Finanze; il porto, dal lato ove è la chiesa di S. Sebastiano, penetrava ancora un po’ di più, e giungeva fino all’Arsenale, il Tercianatus dei vecchi documenti, che ha lasciato il nome alla piazzetta di Terzana.
Sullo sprone non v’erano edifici notevoli, salvo che lo Steri, l’antica e nobile dimora dei Chiaramonte, accanto a cui la casa men bella dei conti di Cammarata e la chiesa di S. Maria della Catena.
Dietro lo Steri sorgevano la chiesetta di S. Antonio, ancora esistente, e la chiesa di S. Nicolò, or da un secolo circa distrutta.
Le altre case intorno eran piccole dimore, frammezzate da orti e giardini, tra i quali, dalla parte opposta allo Steri, sorgeva nella sua bella architettura ogiva la chiesa di S. Francesco dei Chiovari e accanto a essa si innalzava bruna, massiccia , fiera nei suoi merli, con finestrette simili a feritoie, la torre di Maniace o volgarmente di Manau.
Fra quelle case v’era qualche taverna, sulla cui porta una fronda di alloro rinsecchita serviva d’insegna.
L’erba cresceva nella piazza; e delle capre dal pelo lungo e dalle corna lunghe, a spirale, pascolavano tranquillamente.
L’odore delle alghe marine, deposte sulla riva dall’alterna vicenda dei flutti, impregnava l’aria silenziosa.
Fra le barche tirate a secco alcuni marinai col berretto rosso in capo, come si vedono ancora nel promontorio sorrentino, stendevano le reti al sole; da un focolare improvvisato con due sassi, si levava una spirale di fumo azzurro, che si allargava e si sperdeva in alto.
Oltre le barche, nel vasto specchio d’acqua del porto si scorgevano alcune galee e barconi e feluche; qualcuna aveva già spiegate le vele e si accingeva a prendere il largo. Più in là ancora il Castello a mare distendevasi con le sue torri massicce, l’ampia cortina merlata, armata di bombarde, accanto alle quali, si vedevano biancheggiare le grosse palle di pietra.
Più in fondo ancora Monte Pellegrino disegnava nel cielo la sua massa rocciosa, coi fianchi verdeggianti di boschi, e le cime indorate dal primo sole.
V’era una gran pace, una tranquillità dolce e solenne a un tempo nell’aria fine e trasparente, per la quale volteggiavano stormi di rondini, salutando il sole con piccoli gridi festosi.
Un giovinetto s’era fermato con un senso di meraviglia e una certa commozione in mezzo alla piazza, guardando il palazzo chiaramontano.
Poteva avere sedici o diciassette anni, e vestiva poveramente; il suo farsetto aveva qualche strappo ai gomiti, e le sue calze erano sdrucite. La tasca che portava appesa con una cordicella, rivelava la rotondità di un pane. Le sue scarpe erano rotte e impolverate, come di chi viene da lungo viaggio. Aveva in mano un grosso bastone, e infilato alla cintura un pugnale con la guaina di cuoio.
Non era bello: il suo volto aveva qualcosa di irregolare, ma nell’insieme era piacevole ed espressivo. V’era un non so che di fiero e di malinconico a un tempo, ma una malinconia silenziosa e pacata; e gli occhi grandi, neri, acuti, mobili, investigatori, contrastavano col color dei capelli tra biondi e castani.
Doveva esser bianco di carnagione, e si vedeva dalla sommità della fronte, quando con un gesto che pareva volesse scacciar qualche torbido pensiero, egli sollevava il berretto e scostava i capelli. Ma il sole aveva abbronzato il suo volto e le sue mani.
Sebbene poveramente vestito e sporco di polvere il suo aspetto aveva qualche cosa di fine e delicato, che non sfuggiva neppure a uno sguardo superficiale e distratto.
Egli stette un poco fermo in mezzo alla piazza, guardando lo Steri; poi volse gli occhi intorno a sé, come uno che voglia riconoscere qualche cosa o qualche luogo: accortosi di una taverna a pochi passi dallo Steri, vi si avvicinò, e sedette sopra una panchetta di legno, accanto alla porta.
Aveva fame; tirò la saccoccia dinanzi a sé, e ne trasse un pane da contadini, tondo e bruno, che addentò vigorosamente.



Luigi Natoli: Il paggio della regina Bianca. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1400, quando era appena tramontata l'epoca chiaramontana.
Riproduzione fedele dell'opera originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1921
Pagine 700 - prezzo di copertina € 23,00
Copertina di Niccolò Pizzorno
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it (spedizione a mezzo corriere)
Disponibile su Amazon e tutti i siti vendita online
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