Alla Guadagna, sulla sponda del fiume
Oreto, presso il ponticello di pietra, c’era, ombreggiata da un gruppo di
pioppi, una taverna campestre. Una casa a pianterreno, con un piccolo spazio di
terreno vuoto dinanzi sul quale lo zu’ Saverio il “Tripposo”, così detto perché
il vaiuolo gli aveva bucherellato il viso come una trippa, disponeva nella
buona stagione tre o quattro tavole, banchi e scranne. La taverna aveva due
stanze: la seconda delle quali gli serviva da camera, e, occorrendo, da sala
riservata per gli “amici” che avevano qualche “discorso” da fare. Per comodo
dei quali, la stanza aveva una porticina, che dava sui folti canneti, che, fra
gli alberi formavano una fitta muraglia verde dietro la taverna, e si
prolungavano lungo le due sponde del fiume, ristretto in quel punto come un
ruscello o un canale.
Il sito era pittoresco, anche per lo
sfondo verde. Oltrepassato il ponticello, si dilungava una viottola, fra campi
aperti; a poca distanza della quale sorgeva una chiesetta, dedicata alla
Madonna della Grazia, volgarmente chiamata della Guadagna, e a cui era
addossato un edificio, specie di canonica, una volta sede di una Congregazione,
già venuta meno nel 1787. Più in là, a monte, sorgeva un antico palazzetto
trecentesco, di stile ogivale, mezzo rovinato; antica villa dei Chiaramonte,
che paurose leggende popolari avevano fatta denominare la Torre dei Diavoli. In
fondo, in giro, la chiostra dei monti, ed il convento di S. Maria di Gesù,
biancheggiante alle pendici del Grifone, e più in là il villaggio della Grazia,
su quelle dell’Orecchiuta. Un ampio e vasto scenario che si godeva dallo spazio
davanti la taverna. Il fiume, in quei pressi, s’incassa fra due ripe alte, di
tufo giallastro, nelle quali si aprono grotte scavate in tempi immemorabili,
alcune delle quali gli antichi ridussero probabilmente in sale da bagno;
vedendosi in alcune di esse, di forma semicircolare, dei sedili lungo le
pareti.
La taverna era meta nei pomeriggi dalla
primavera all’autunno di artigiani e “galantominicchi”, che vi andavano a bere
un vino chiaretto della contrada dei Ciaculli o di Misilmeri; e, secondo la
stagione, a mangiarvi qualcuna delle pietanze popolari, o manicaretti
stuzzicanti la sete. Ma ciò non toglie che la taverna fosse d’inverno
abbandonata: soltanto gli avventori erano scarsi. Questa era la clientela
comune, manifesta, insospettabile: ma la taverna del “Tripposo” aveva altra
clientela, che, apparentemente non aveva nulla di diverso dall’altra; mangiava,
beveva, giocava alla morra o al “tocco”, o sonava la chitarra e cantava canzoni
e arie popolari; ma quando non c’era gente entrava nella seconda stanza e si
chiudeva in conferenze come un corpo diplomatico o un sinedrio segreto; e
quando la gente non se ne andava, essa si allontanava alla spicciolata,
prendeva la via della città, ma per svoltare ad un tratto, quando era fuor
della vista, gittarsi fra i canneti, e giungere all’usciolo di dietro della
taverna, dove entrava non veduta.
L'opera è ricostruita e trascritta dal romanzo originale pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1927
Pagine 562 - Prezzo di copertina € 22,00
Copertina di Niccolò Pizzorno.
Elaborazione grafica: Maria Squatrito
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
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