In
silenzio accanto a Giovanni, Andrea non sapeva che dire, perché dinanzi a
quella morte così rapida assaporava la gioia di vivere e di sentirsi bene.
Attraversarono la città. Andrea aveva bisogno di andare a casa sua a prendere
qualche cosa, che Carlotta aveva dimenticato; e aveva indotto Giovanni ad
accompagnarlo: tanto dovevano insieme risalire a Mezzomonreale col carretto del
“curatolo” che li aspettava a Porta Nuova.
E
via via che andavano per le antiche strade strette, opache, luride, si rivelava
sempre più terribile la furia del mostro. Da un giorno all’altro l’orrore si
centuplicava. I morti dopo dieci giorni dai primi due casi, toccavano il
centinaio; ma gli attaccati erano quattro volte di più. E chi non era attaccato
fuggiva, abbandonando anche i parenti negli spasimi di un’agonia spaventevole.
Essi
vedevano qualche volta, attraverso la porta spalancata di un pian terreno, un
disgraziato, solo, senza un cane, dibattersi per terra fra le sue reiezioni,
rattrappito dai crampi, chiedere soccorso. Giovanni si sentiva stringere il cuore
di pietà, e pensava a padre don Ciccio; ma Andrea lo trascinava pel braccio.
-
Andiamo! andiamo! – diceva con voce soffocata dal ribrezzo e dalla paura.
Sbucando
in una piazzetta udirono un clamore di voci che andava crescendo come lo
scroscio dei marosi che si incalzano. Un rullìo di tamburi. E subito un fuggir
di gente, un serrar frettoloso di porte e di botteghe. Poi, ecco una folla
enorme di popolo. Scalza, cenciosa, arruffata: uomini, donne, ragazzi. Innanzi
a tutti un omaccione, che agitava un cencio legato a una canna, come una
bandiera; e accanto a lui un altro batteva un grosso tamburo. Oltre le teste,
si agitavano convulsamente braccia armate di bastoni, di coltellacci, di sassi.
Ora le voci si facevano più distinte: l’omaccione gridava:
-
Viva Santa Rosalia! – E tutti ripetevano il grido con impeto d’ira e di
vittoria insieme. Dai volti, dagli occhi, lampeggiava una gioia feroce e cupida
di stragi.
Giovanni
e Andrea si addossarono a una porta per lasciare passare quella fiumana
procellosa; e quando quel torbido alfiere passò dinanzi a loro, una donna
scarmigliata, sozza, stralunata, gridò:
-
Ne abbiamo preso uno!... Li prenderemo tutti!.. Viva Santa Rosalia!
Seppero
da uno della folla che avevano sorpreso un fontaniere arrampicato sul
castelletto di distribuzione delle acque. Certo le avvelenava. E lo avevano
ucciso a sassate. Gli avevano rotto la tempia. Giustizia, signori miei!
Giustizia! non si avvelena la povera gente. Giovanni n’ebbe orrore, Andrea
divenne livido.
Quando
ripresero il cammino, rabbrividendo ancora, Andrea disse:
-
Oh senti: questo è l’ultimo giorno che io vengo in città. Non voglio
angustiarmi l’anima con questi orrori...
Ma
Giovanni non l’udì. Camminava con un’aria dissennata, come uno, mal desto,
ancora in preda a un sogno spaventevole. Quella furia di popolo, quelle grida
forsennate che minacciavano altri scempi, altre scelleratezze, orrori sopra
orrori, gli avevano sconvolto l’animo e sbalestrate idee e sentimenti; come un
colpo di vento, che, entrato improvvisamente in uno studio, butta all’aria e
disperde i foglietti, sui quali i pensieri erano stati esposti in ordine
logico. L’immagine di padre don Ciccio, quelle dei suoi vecchietti nella vasta
casa piena d’ombra, il dolor suo e quello dei suoi, sparivano sotto a quel
colpo di vento, che disordinava violentemente il suo spirito. Che cos’era la
vita di un uomo? che cosa il dolore di una famiglia? V’era qualche cosa più
terrificante della morte; e v’era nel mondo un dolore più vasto, più profondo,
più orrendo di quello
di chi piange un caro estinto. E si sarebbe egli chiuso nella cerchia egoistica
dei sentimenti famigliari?
Vide
in quel momento, un ometto vestito di nero, entrare in un miserabile
pianterreno senza esitare. Spinto da una curiosità inquieta, Giovanni si fermò
davanti alla porta; e nell’ombra grave e putrida di quella squallida stamberga,
potè scorgere quell’ometto inginocchiato dinanzi a un mucchio di paglia. Egli
sorreggeva un coleroso in preda agli spasimi, e gli dava coraggio; e in piedi una donna, lacera, sudicia,
sbalordita dal dolore, muta e sgomenta. Poi l’ometto scrisse una ricetta e la
diede alla donna, che mormorò con angoscia:
-
Che ne faccio? con che pagherò la medicina?
E
allora quell’ometto si tolse l’orologio e la catena d’oro, li diede a quella
donna, e se ne uscì di fretta, senza dir parola. Giovanni si sentì meschino o
vile dinanzi a quel gesto di carità grande e semplice, strinse il braccio di Andrea,
e gli disse:
-
Hai visto? Sai chi è quel medico? è il dottor Tranchina.
Ma
Andrea si strinse nelle spalle:
-
Certi eroismi, – disse, – sono pazzie. Il sacrificio del suo orologio non
sottrarrà certo quell’uomo alla morte. E anche lo salvi, quell’uomo è uno, i
colerosi centinaia. E il dottore non ha centinaia di orologi d’oro… E allora
non ti sembra quel sacrificio sia inutile?
-
Inutile? O dunque il non poter aiutare dieci, venti, deve impedirmi di aiutarne
almeno uno? Deve impedirmi di asciugare una lacrima, di infondere un raggio di
speranza, di far sentire un alito d’amore a uno?
Andrea
fece un gesto ironico: e Giovanni si chiuse in un silenzio pieno di pietà e di
sdegni.
Luigi Natoli: I morti tornano. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1837 devastata dal Cholera. Nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1931
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"I morti tornano..." fa parte anche della raccolta "Trilogia del Risorgimento" che include i tre romanzi: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro, I morti tornano..., Chi l'uccise?
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