La passione del giuoco era divenuta in
Palermo tanto grande, che i fabbricanti di carte erano divenuti numerosi così
da poter formare una corporazione autonoma, e da allettare il fisco che, nel
1775, imponeva una gabella sulle carte da giuoco. Non vi era conversazione,
dove non si giocasse e dove talvolta ingenti fortune non passassero da una mano
all’altra. I vicerè avevano cercato di frenarla con bandi, che, come tutti i
bandi proibitivi, rimanevano lettera morta. Avevano anche proibito i giuochi
più rischiosi: la bassetta, la primiera, il biribisso, il goffo, il trenta e
quaranta, il banco fallito, la regia usanza, il faraone, il passadieci, e via
dicendo; tutti giuochi nei quali il trarre di una carta o un getto di dadi
poteva costare anche un feudo ai nobili, la vita d’un mese ai civili, la
miseria e la disperazione, e forse anche il delitto, ai plebei. Proibito non
soltanto giocarli, ma anche vederli giocare; non soltanto nei caffè e negli
altri luoghi pubblici, ma anche nelle case private.
Ma intanto lo stesso Vicerè, lo stesso
Pretore, nei ricevimenti ufficiali, non mancavano di aprire una sala pel giuoco,
ed eran costretti a chiudere un occhio sulle ordinanze.
Alla “Conversazione grande” o al
“Cesarò”, dunque, si giocava. Al tavolino più affollato si giocava a bassetta;
sul tappeto verde eran distese le dieci carte, cucite in una striscia di panno;
altre carte stavano dinanzi e dietro e sparivano sotto le poste: colonne e
monti d’argento e d’oro. Il banco sfogliava: or tirava a sé alcune poste, ora
pagava. Intorno al tavolino era un incrociarsi di dialoghi, di esclamazioni, di
risa, di sommessi bisbigli; qualche mano a un tratto si abbandonava
furtivamente, qualche altra andava a cercarla; in una leggera pressione si
comunicavano, nell’ombra del tappeto, una parola non detta. Negli altri
tavolini si giocava a goffo e a primiera, in silenzio, con raccoglimento, con
brevi parole monotone, con lievi osservazioni, e con un ammonticchiarsi di
carte, gittate ne lo sballo.
Appena la duchessa entrò,
appoggiandosi al braccio del cavalier Gallego e seguita da tre o quattro
signori, che, vistala nell’anticamera, mentre gittava lo scialletto di seta ai
servi, erano corsi a riverirla e l’accompagnavano; alcuni giuocatori si
staccarono dal tavolino della bassetta e le vennero incontro. Quelli degli
altri tavolini si alzarono a mezzo inchinandosi; ella rispondeva con un grazioso
sorriso, porgendo la mano al bacio, o se si trattava di salutar qualche dama,
facendo quelle graziose riverenze da minuetto, che la moda contemporanea ha in
qualche modo risuscitato. Qualche volta una dama si alzava, lasciava il tavolo;
un cavaliere la seguiva; sotto le forme della galanteria, traspariva qualcosa
che oltrepassava i limiti delle cortesie e nel vano delle finestre, tra le
cortine, si potevano sorprendere rapidi sussurrii.
Nelle altre sale, quelle di
conversazione, intorno al cembalo o in soffici canapè, la galanteria prendeva
un tono e maniere assai più libere: le dame si lasciavano corteggiare, forse
anche un po’ troppo; e mentre il frasario non dimenticava le formule
prescritte, le mani e i sospiri dicevan pensieri più intimi e più audaci. I
sussurrii, le risa fresche e argentine, talvolta il suono del cembalo,
giungevano nella sala da giuoco, e si frammischiavano alle conversazioni
sommesse, al tintinnìo delle monete.
Luigi Natoli: Calvello il bastardo. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine settecento, influenzata dalle nuove idee della rivoluzione francese che ruotano, oltre che intorno al protagonista, al giurecolnsulto Francesco Paolo di Blasi.
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913
Pagine 850 - Prezzo di copertina € 25.00
Copertina di Niccolò Pizzorno
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