Il primo era don Agostino Caracciolo.
Dal don e dal vestiario si riconosceva che era del ceto di quei piccoli
impiegati, copisti o portieri negli uffici, scrivanelli o faccendieri che
facevano da sensali presso i “paglietti”, cioè procuratori e avvocati di
scarto, e qualche volta si adattavano anche a insegnare la Santa Croce ai
ragazzi del popolo, a un grano al giorno. Era un uomo sui trent’anni, bruno di
carnagione, di capelli nero, gli occhi impiccioliti dall’abitudine di tenerli
socchiusi, come per raccogliere l’acutezza dello sguardo; una riga profonda tra
le due sopracciglia corrugate; una espressione di sprezzo per gli altri e di
coscienza del proprio valore; l’aria dell’uomo che sa il fatto suo, che “si
fida”, che non indietreggia dinanzi ad un coltello, e sa impugnarne uno con
tutte le regole dell’arte. Nel tono del saluto si sentiva l’abitudine di
“masticare le parole”; nella camminatura, l’uomo che sa di imporre rispetto.
Don Agostino Caracciolo non esercitava una professione fissa: si adattava a
quelle che gli capitavano nelle mani, tanto per aver l’apparenza di vivere del
suo lavoro. Da alcuni anni faceva il “razionale dei bottegai”; era, cioè, il
contabile o ragioniere, che teneva i conti dei fruttaiuoli.
Don Gaetano La Paglia, poteva avere
qualche anno di più; era anche lui bruno; e all’aspetto, al vestire, al gesto,
all’andatura si vedeva subito che era dello stesso ceto, e della stessa specie.
Egli esercitava la professione di scrivano pubblico nel piano della Correria
che l’anno prima era stata trasportata nelle case di S. Cataldo, di fronte alla
porta meridionale del palazzo del Senato, cioè Municipale. Allora il palazzo
aveva quattro porte, una per lato; di esse due in tempi vicini furono chiuse.
Anticamente il prospetto principale era dalla parte dell’odierna piazza
Bellini; e qui era naturalmente la porta principale, fino a tutto il secolo
XVI; quando allargato dalla parte della fontana, e fatto un nuovo prospetto, vi
si fece il nuovo portone e si mutò l’aspetto del palazzo. La Correria, o Posta,
dunque era di fronte all’antica facciata principale, in alcune case addossate
alla chiesetta normanna di San Cataldo, che vi rimaneva sepolta, e serviva di
magazzino, e tale rimase finché trasportati altrove gli uffici, il prezioso
monumento non rivide la luce. Allora agli ufficî si accedeva per due scalette
esterne, la seconda delle quali metteva in un portico, sotto cui erano le
finestre per la distribuzione. Giù nel piano, lungo il muro di questa seconda
scala erano schierati i tavolini dei pubblici scrivani. Quello di don Gaetano
guardava le due statue marmoree che si trovavano all’angolo del palazzo
municipale di fronte alla Martorana. Quelle due statue dell’epoca romana
rappresentavano un magistrato e la moglie, ed erano prima dinanzi alla chiesa
di San Francesco; donde nel 1563, erano state portate su quel canto, e ivi
stettero fino al 1823, quando furono tolte e poste nell’atrio del palazzo.
Quattro volte la settimana egli
collocava il suo tavolino, protetto da un ombrellone; e aspettava i clienti;
non molti in verità. Erano i giorni della spedizione dei corrieri, lunedì e
giovedì, e della distribuzione delle corrispondenze, martedì e sabato; chi
aveva da spedire lettere o chi voleva farsele leggere ricorreva all’opera dello
scrivano; il quale avrebbe fatto assai magri affari, se, oltre alle lettere non
si prestava a scrivere suppliche ed istanze, e a copiare carte e a vendere
penne d’oca, carta e ostie per incollare le lettere.
Certamente
questi proventi bastavano appena per non far morire di fame un uomo senza
bisogni; ma don Gaetano aveva famiglia, e non era un uomo da contentarsi di pan
solo. Aveva altre fonti, alle quali attingeva per vivere con una certa
agiatezza secondo il suo stato. Qualcuno se ne meravigliava, sebbene per
soggezione, non osasse esprimere dinanzi a lui la sua meraviglia.Luigi Natoli: La vecchia dell'aceto. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del '700. La storia di Giovanna Bonanno, l'avvelenatrice passata alla storia come La vecchia dell'aceto.
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