Il palazzo reale, dimora del vicerè
dal secolo XVI in poi (prima abitavano nel Castello a mare o nello “Steri”, o
palazzo dei Chiaramonte, ceduto poi al Sant’Offizio, e oggi ai Tribunali) sorge
in capo alla via principale, allora battezzata col nome di Via Toledo, ma dal
popolo, come anche oggi, detta Cassaro, dall’antica denominazione araba. È un
vasto edificio, o meglio l’aggregato di parecchi edifici, sorti per aggiunzioni
posteriori o per trasformazioni di alcune antiche parti. Della sua forma
primitiva non rimane più nulla; però sono ancora riconoscibili le masse pesanti
di due torri delle quattro che lo fortificavano, quando esso era castello o rocca,
sotto gli Emiri e poi sotto i re Normanni e Svevi. In una di esse la torre di
S. Ninfa, la più visibile, si trova ora la Specola, o osservatorio astronomico,
che all’epoca del nostro racconto era stato istituito da un anno; l’altra si
indovina nell’ala che domina la sottostante Porta di Castro, ora distrutta. Gli
appartamenti regali occupavano ancora la parte centrale, cui tolse l’aspetto di
fortezza, e ridusse nella forma presente, il vicerè marchese de Villena.
La storia di questo palazzo è la storia
di Palermo; e in gran parte anche della Sicilia. Tutte le vicende liete e
tristi dell’isola vi sono legate intimamente, da quando la città divenne capo
di regno. Da lì Ruggero II spinse l’avido sguardo sognatore di più alto
scettro; da lì Federico II iniziò la sua lotta cinquantenaria contro la
teocrazia, primo a intendere la laicità dello Stato. Giorni di servaggio e di
indipendenza. Rivoluzioni baronali e di popolo; occulte e palesi tirannie e
voci di libertà, si librarono da quel palazzo, or come stormi di avvoltoi
rapaci, or di audaci aquile. Nelle aule di quel palazzo, Federico raccolse la
bella scuola dei suoi poeti volgari; Ferdinando IV decretò le stragi del 1799;
Garibaldi proclamò la libertà della Sicilia. Lì si adunavano i Parlamenti;
sedeva la deputazione del regno, vigile custode delle costituzioni e delle
guarentigie dell’isola; ivi i supremi tribunali.
Su per le stanze, intrighi ed amori e
ordini occulti di morti misteriose, si alternavano col fasto borioso dei vicerè
spagnoli e con l’ostentazione delle pratiche religiose; o scoppiavano fieri
conflitti fra il potere viceregio e la potenza baronale...
Espugnare il Palazzo significava avere
la città in potere. Nel 1648, il cardinal Trivulzio, venuto a reggere l’isola,
faceva abbattere alcuni edifici monumentali che vi sorgevano da presso, e fra
essi una basilica eretta da Belisario, per costruire due bastioni in difesa del
Palazzo. Quei bastioni, propugnacolo di tirannide, furono smantellati nel 1848
dalla rivoluzione vittoriosa. All’epoca del nostro racconto, cioè nel 1792,
erano in piedi, cinti di fosso, muniti di artiglierie pronte a far fuoco.
Per andare al Palazzo bisognava
passare fra’ due bastioni. La porta principale, sormontata da una magnifica
aquila marmorea, era custodita dalla guardia svizzera; e guardie si trovano su
per la magnifica scala di marmo rosso di Castellammare. Le carrozze e le
portantine si fermavano dentro l’ampia corte, a doppio ordine di portici;
quelli del primo piano mettevano agli uffici e agli appartamenti. Un corridoio
conduceva a quelli regali.
Dopo le sale di servizio, si trovava
il grande salone dove S. E. il vicerè teneva le solenni udienze, e dove si
radunava il Parlamento. L’antica aula del Parlamento era giù, al pianterreno;
l’aveva decorata di pitture Pietro Novelli; v’era fra l’altro dipinta la
cerimonia dell’apertura del Parlamento e quella dell’atto di fede solito a
celebrarsi dal Sant’Offizio; ma il capriccio di un vicerè abolì quell’aula, cui
si legavano tante memorie; e ne fece scuderie. Le rappresentazioni pittoriche
del Novelli non udirono più che nitriti e bestemmie.
Il Parlamento fu trasportato negli
appartamenti regali; e il vicerè don Francesco d’Aquino, principe di
Caramanico, poco dopo il suo arrivo, ne fece dipingere a fresco la grande aula,
facendovi rappresentare sul soffitto l’allegoria della Maestà regia protettrice
delle scienze e delle arti.
Oggi quelle pitture non esistono più.
Pochi anni dopo, re Ferdinando le fece
cancellare, per fare dipingere dal pittore Giuseppe Velasquez le fatiche e
l’apoteosi d’Ercole. Forse per non vedere in quella simbolica Maestà regia
un’ironia a quelle virtù che egli non ebbe mai.
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