Don Calcedonio aveva
finito di far colazione, e se ne stava a fare un po’ di siesta. Era di giugno e
il caldo incombeva su tutte le cose; don Calcedonio s’era sdraiato sopra uno
dei banchi del suo teatro, nell’ombra, appoggiando il capo a un cuscino – chè
così pomposamente chiamava qualche cosa imbottita di non si sa che roba posta
sul nudo legno e per la quale pretendeva dagli spettatori un supplemento. – Il
teatro era vuoto; si costituiva di una stanza, anzi di un piccolo magazzino,
col soffitto di travi, imbiancato; nelle due pareti si vedevano due palchi, uno
di fronte all’altro. Palchi egli li chiamava; il realtà erano due corridoi
pensili larghi appena da potervi star seduti: tinti di color cilestrino, con
dei disegni in rosso, che non si sapeva bene cosa rappresentassero. Dei banchi
erano disposti in fila nella platea, e in quel momento erano sparsi di
armature, di vesti, di pupi. Perché – e forse è superfluo dirlo – il teatro di
don Calcedonio era la spettabile “Opera dei Pupi”, o, come si leggeva dipinto
sulla porta d’ingresso, “Teatro di marionette”.
V’era, in fondo, il
palcoscenico vuoto, desolante come quello di un teatro vero nelle ore del
giorno, quando si fa la pulizia. Non scene, non sipario; l’ombra avvolgeva
tutte le cose; nello sfondo apparivano il muro senza intonaco, i travicelli
dell’armatura scoperti, e di qua e di là appesi, alla rinfusa una grande
quantità di pupi, maschi e femmine, cristiani e saraceni che tra l’ombra
mandavano dei bagliori, dove le armature prendevano luce in riflesso. I lumi
della ribalta spenti, mostravano nelle spelature della tinta esterna del
riverbero, la meschinità della latta. E tutto v’era meschino, il frontespizio o
vuoi dire la bocca d’opera, dipinta di un color cenere, con delle strisciole bianche
e grigie che fingevano cornici di stucco; i panneggi rossi che incorniciavano
la scena, dipinta in modo spaventevole, e che pur formava la delizia degli
occhi del minuscolo popolo degli spettatori; l’aria stessa che vi si respirava.
Don Calcedonio, con le
mani sotto l’occipite, guardava in alto, e contava i travi del soffitto. Era
una cosa abituale in lui; non già che lo facesse di proposito, ma appena si
sdraiava supino con gli occhi in su, subitamente si metteva a contare i travi
del soffitto. Quella mattina aveva lucidato l’armatura di Fioravante; elmo,
corazza, schienali, bracciali e cosciali di nichel, rabescati d’ottone dorato,
risplendevano come argento e oro. Fioravante era disteso su un’altra panca, i
tre fili di ferro che gli reggevano il capo e le braccia, congiunti insieme,
gli davano una posa da guerriero aspettante; la visiera alzata gli scopriva il
viso immobile con gli occhi fissi; la veste, corta al ginocchio, verde, color
della speranza, ornata di tre file di passamani d’oro, gli pendeva in pieghe
simmetriche; e la spada, la terribile Durlindana, che poi avrebbe ereditato
Orlando, gli giaceva al fianco. Oh, era un bel paladino Fioravante. Tutta la
mattina don Calcedonio l’aveva occupata con lui. Non conosceva risparmio per i
paladini; egli vi spendeva anche più che non potessero le sue forze; alcune
armature gli costavano fino a cinquecento lire: quella di Orlando per esempio,
tutta dorata, con i gomiti, le spallacce, le ginocchiere che parevano argento,
e lo scudo con la croce d’oro, che rifulgeva come un sole. Ma Orlando era il
paladino maggiore, e conveniva vestirlo meglio degli altri; la sua veste bianca
pareva intessuta di gigli e i ricami parevano una pioggia di botton d’oro.
Peccato, che avesse gli occhi storti!
Ma don Calcedonio non
pensava a lui. Pur continuando a contare le travi del soffitto, la sua mente
era piena di Fioravante e di Mambrino, del quale aveva nella mattinata ripulito
l’armatura. Questa era diversa da quella di Fioravante, perché Mambrino era
saraceno, e i saraceni, si sa, vanno vestiti diversamente. Hanno l’elmo senza
visiera, con un turbante attorcigliato e una specie di chiodo in cima, donde
scaturiscono le piume. E hanno le brache corte fino al ginocchio, e la
scimitarra.
Veramente i romanzi di
cavalleria che egli leggeva, dicevano che i guerrieri saraceni erano vestiti
come i cristiani; le stesse armature, come lo stesso linguaggio cavalleresco,
gli stessi usi; la differenza era che i cristiani giuravano per Gesù e per la
Vergine Maria, i saraceni per Macone, Maometto, Apolline, Belial. Ma don
Calcedonio vestiva i cavalieri cristiani come i giostranti del secolo XVI, e i
saraceni come i turchi dei secoli posteriori. Era tutt’uno per lui!
Luigi Natoli: Fioravante e Rizzeri.
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