Popolo! Dite una folla
inconsapevole, mutabile, che si volta là dove la spinge il vento; che oggi ti
segue, ti esalta, si fa uccidere per te; domani ti abbandona, ti vitupera, ti
uccide. Non ve ne fidate… Non v’è che un mezzo di tenerlo soggetto e devoto: la
paura. E la paura la incutono le armi. Circondatevi di milizie, di quelle che
non conoscono la pietà, e tenetele come una minaccia sospesa sul popolo, e
questo non si arrischierà mai di tentare qualche cosa contro di voi… E dategli
pane; anzi fategli capire che voi solo potete dargli pane, perché non si
allontani da voi. Il popolo è un cane: il cane non si mantiene sottomesso e
fedele che con lo staffile e col pane. Ma non lo saziate: alimentategli la
speranza di ottener di più, perché vi segua … Io ho errato: ho mostrato troppo
dispregio e nel tempo stesso troppa debolezza. L’ho abbandonato a sé stesso.
Non ne ho diffidato abbastanza. Domatelo senza che egli trovi ragione e mezzi
per ribellarsi, ma diffidatene sempre, e abbiate sempre pronte le armi per
rompergli le zanne …
Tacque un poco e riprese:
- Io l’odio questo popolo, che sparse il sangue dei miei figli; che
saccheggiò, bruciò la mia casa; che mi cacciò come un lupo; che perseguitò i
miei amici; e vorrei colpirlo con la mia vendetta… Ma mi serve. Deve essere lo
strumento della mia rivincita. Io lo scaglierò addosso ai miei nemici, come una
muta di cani sul cinghiale.
Parlando i suoi occhi si accendevano di fiamme d’odio che davano al
suo volto una espressione feroce e spaventevole.
- Non ne ho dimenticato nessuno.
Nuovo silenzio. I due Chiaramonte lo guardavano, con ammirazione
sommessa, come soggiogati da quella volontà imperiosa...
Il resto della
conversazione si aggirò sulla necessità di preparargli la casa. Il palazzo
degli Schiavi era stato restaurato ma, come possedimento di un reo di fellonia,
era passato nelle mani del Fisco che l’aveva venduto. Bisognava riscattarlo, e
s’intende, con denari del Fisco stesso: ma intanto bisognava provvedere, perché
da un giorno all’altro sarebbe arrivata la famiglia. Non gli davan pensiero le
quattro figlie, che sarebbero andate in monastero fino al giorno, che avrebbero
trovato marito; quanto i maschi; alcuno dei quali era ancora fanciullo. La
moglie era morta da più anni. Questi figli lo impensierivano: bisognava dar
loro uno stato; ed egli bandito, spogliato del suo, senza ufficii lucrosi, non
vedeva dinanzi a sé che una povertà umiliante e odiosa. Guai a coloro che
l’avevan ridotto in quello stato! Ora bisognava rifar da capo la sua ricchezza.
E con ogni mezzo. Era ancor vivo, sano, vigoroso, col cuore gonfio di ambizioni
e d’odio; con una volontà tenace, senza scrupoli, temprata nelle angustie e nei
rancori dell’esilio. La disgrazia gli aveva insegnato a coprire le audacie con
l’arte di dissimulare di Damiano. Si sentiva capace di tutto, sicuro di sé,
fiducioso nella fortuna. Sarebbe diventato il padrone, l’arbitro del regno. Il
re, quel Ludovico, che non aveva ancora dodici anni, malaticcio, cucito alle
gonne della madre e della governante, sulle quali egli aveva un ascendente che
pareva dominio; quel re, che a Blasco Alagona, tutore ufficiale, dava autorità
e governo, doveva cadere nelle sue mani, non essere che un nome, un’insegna,
una figura di sigillo.
Luigi Natoli: Latini e Catalani vol 2 - Il tesoro dei Ventimiglia.
Prezzo di copertina € 22,00
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Sprofondato nella visione interiore del suo sogno di dominio,
Matteo spingeva lo sguardo oltre e fuori del regno. Immedesimava le sue
ambizioni con le necessità politiche del tempo; stringeva alleanze; tirava
dalla sua il papa e la repubblica di Genova; creava imbarazzi al re Pietro IV
di Aragona, il cui occhio cupido si volgeva alla lontana Sicilia, ora che aveva
messo piede in Sardegna; e al quale come a naturale protettore miravano i
Catalani dell’Isola. Con lunga, acuta intuizione, vedeva nel re di Aragona la
minaccia dell’asservimento della Sicilia a quel reame al quale eran legati i
Catalani di qui, per comunanza di origine, per parentele, per interessi.
Identificava così la causa dell’indipendenza del regno di Sicilia
con la sua propria: egli era il salvatore; il potere nelle sue mani significava
la sicurezza della indipendenza. Le vendette che egli escogitava erano la
liberazione del regno da ogni pericolo. Bisognava abbattere, disperdere,
annientare i Catalani e quanti parteggiavano per essi: trascinarsi dietro il
baronaggio siciliano più possente: i Chiaramonte, i Montaperti, i Lancia, i
Tagliavia; costringere i Rosso, gli Sclafani a sottomettersi e passare alla sua
parte o a perire. Poi…
Guardando quella sala, rivedendo la massa imponente dello Steri,
rievocando gli innumerevoli feudi dei Chiaramonte, si domandava se questi suoi
possenti congiunti si sarebbero poi acconciati a subire il suo dominio. E dopo
i Chiaramonte apparivano gli altri signori: nobiltà ricca di feudi e di
memorie: divenuta in quei trambusti indipendente; disavvezza da ogni idea di
sommissione a una autorità, anche a quella regia. Ah! Quel baronaggio così
ribelle, così difficile, così mutabile! Ecco l’ostacolo: forse maggiore di
quello che egli riconosceva nella nobiltà catalana. Bisognava piegare,
abbattere quel baronaggio, passare sopra quelle teste, spezzare le spade, dopo
essersene servito. Una spada sola, la sua.
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