Le malattie son dentro; s’annidano nelle viscere, nel sangue, nei
nervi, in tutto quello che è celato ai nostri occhi, e di cui non possiamo
avere la visione precisa. Ma l’anima di chi è ammalato vede e sa dove il corpo
è ammalato e di che; bisogna dunque, più che l’invisibile del corpo, leggere
nell’anima, domandare all’anima la sede delle sofferenze, ricercare nel suo
muto linguaggio la rivelazione di ciò che è celato ai nostri sensi limitati.
Questo io facevo. Mi bastava guardare fisso negli occhi l’ammalato
perché una luce si facesse nella mia mente, e io vedessi il suo male, e
acquistassi la sicurezza di vincerlo. Questa sicurezza passava dal mio spirito
in quello dell’ammalato: egli se ne andava con la medicina da me somministrata,
pienamente certo di guarire.
Ho detto che io somministravo le medicine; di fatto io non davo le
ricette scritte; poiché queste costituivano già un segreto, non era conveniente
né utile metterle in mano di uno speziale, che avrebbe potuto servirsene per
fabbricare specifici a suo benefizio: i quali, oltre al danno materiale, me ne
avrebbero recato uno morale molto maggiore, giacchè somministrati a caso, senza
conoscer veramente la natura del male, cui io adottavo la medicina, avrebbero
con l’insuccesso e anche, forse, con la morte, messo in discredito i miei rimedi e me.
Io mi provvedevo delle erbe, degli estratti, delle polveri, di tutto ciò che
era necessario; fabbricavo da me, coi processi alchimici l’olio di zucchero;
componevo le medicine, in forma di beveraggi o di pillole, la cui formula, per
ciò, rimaneva un mio segreto.
Il che per altro ne aumentava il valore. Se la gente
avesse saputo che, per esempio, in quelle pillole miracolose c’entrava della
polvere di radici di cicoria, di indivia, di calcitropia, o anice o aloe, o altre cose così semplici e
di niun costo, avrebbe perduto la fede nella mia medicina, e l’avrebbe
disprezzata. Il mistero del segreto invece le dava maggior credito e mi
permetteva di farla pagare ai ricchi un prezzo veramente favoloso. I ricchi
pagavano pei veramente poveri, ai quali somministravo gratuitamente i
medicinali.
A nessuno domandavo un
compenso per le mie visite. Naturalmente i veri poveri rimuneravano la mia
generosità con benedizioni sincere; i borghesi, per la natural albagia
spagnola, non volendo parere ingrati o pitocchi, mi ricambiavano con
regali di polli, salsicce, formaggi,
vini, stoffe, sicchè non spendevo più nulla per il mio vitto quotidiano; i
ricchi, i signori, si disobbligavano magnificamente con regali di gioielli e
di argenteria.
Nella preparazione dei
medicinali non mi facevo aiutare da nessuno, salvo che un po’ da Lorenza. Io
li preparavo di notte.
Io non avevo bisogno di interrogare gli ammalati per
capire qual fosse la loro malattia; se rivolgevo qualche domanda era per seguir
l’usanza dei medici, e per dare una soddisfazione agli ammalati stessi: ma in
verità mi bastava guardarli fissi, perché la natura delle loro sofferenze mi si
rivelava come in un libro. Era una specie di divinazione, che stupiva anche me
stesso. Così non sentivo il bisogno di ricorrere a medicine: invocavo
l’ispirazione del cielo, imponevo le mani sul capo dell’ammalato, gli dicevo:
- Va tu sei guarito.
Come avvenisse non so; il fatto è che se ne andavano
veramente guariti. Ciò aveva del miracoloso; il popolo diceva che io ero un
santo o un mago. Ma un mago non invoca Dio, e non compie opere di carità. Io
oltre a guarire i poveri, davo loro dei soccorsi di danaro; dunque ero un
santo!...
Voi non potete immaginare la folla che assediava la
mia casa; empiva l’ingresso, la corte, il vestibolo, il salone. Centinaia di
sventurati privi d’ogni soccorso. Io li ascoltavo a uno a uno, senza perdere
una parola; entravo nel laboratorio per un istante e ne ritornavo con una
quantità di medicine, che dispensavo, dando a ciascuno la sua e ripetendogli
quel che egli aveva riferito del suo male. La mia memoria era veramente
prodigiosa.
Donde e come nascesse non so, ma ero animato da uno
spirito di carità straordinario. A una povera donna, venuta a implorare il mio
soccorso, perché aveva il marito in prigione per debiti, diedi il denaro per
liberarlo. Questo e altri fatti simili e la mia generosità verso gli ammalati
poveri, rialzarono la mia figura e davano un prestigio d’evangelo alle mie
parole; cosicchè il mio apostolato per diffondere la massoneria egiziana, ed
essere riconosciuto come il Gran Cofto, trovava un terreno favorevole.
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