lunedì 19 giugno 2017

Luigi Natoli: La Setta segreta cospira per l'indipendenza dallo straniero e la repubblica - Tratto da: I cavalieri della Stella o La caduta di Messina.



Non aveva nessun dubbio che quel­la fosse la Setta, la quale aveva in quei giorni esteso di più le sue ramificazioni oltre il numero dei settanta, premendo ai suoi capi di avere il maggior numero possibile di seguaci. La nobiltà messinese, avversario da combattere po­tente. Aveva per sè la ricchezza, la coltu­ra, la tradizione; vagheggiava anche ­– ma non palesemente ­– ideali di una più larga autonomia, e forse anche di indi­pendenza dalla monarchia spagnola; aveva infine nel suo grembo un organismo potente, non ignoto al governo, ma quasi invulnerabile: una società segreta, una specie di carboneria e di frammassoneria, di settanta membri, chiamata appunto per questo numero, la Setta, della quale soltanto i capi conoscevano lo scopo, ma i cui membri erano fedeli, arditi, capaci di tutto, e contavano grandi aderenze nel patriziato e nelle maestranze. Giovanni Alfonso Borrelli, il grande scienziato che insegnava le dot­trine galileiane nello studio di Messina aveva fondata o riordinata questa asso­ciazione segreta; specie di carboneria o di massoneria che aveva finalità politi­che, l'indipendenza dallo straniero e la repubblica.

Per la prima volta, dopo secoli di di­scordia e di sorde rivalità, i cittadini di Messina comprendevano che soltanto dall'unione delle maggiori città poteva il regno acquistare la forza per liberarsi dal giogo straniero, o, almeno, per garantire i propri diritti e non lasciarsi spogliare dall'ingordo padrone; comprendevano che, come ai tempi del Vespro, Messina e Palermo dovevano gittare in un rogo le loro rivalità, i loro rancori, per sentirsi veramente sorelle, difenditrici e protettri­ci di tutta l'isola.
Messi segreti erano stati spediti dal­la Setta, ai maggiori cittadini di Palermo, per stringere un nuovo patto di amistà, per la comune difesa. Palermo non doveva dimenticare ciò che aveva patito dopo la rivoluzione del 1647, e i suoi cittadini più illustri, co­me Francesco Barone, Simone Rau, An­tonino Giudice, Giuseppe La Montagna, gittati nelle galere o nelle segrete più or­rende, o mandati a morte; i monumenti più antichi e venerandi per memorie, smantellati per farne bastioni a offesa della città; gli accresciuti balzelli, la mi­seria crescente... Si ricordava Trapani in tumulto, e i supplizi che vi erano seguiti; si vaticinavan altri e più crudeli supplizi nelle maggiori città, solo che avessero osato levar la voce...
Tutte queste cose i messi della Setta avevano detto, e le loro parole non eran rimaste infruttuose; Palermo le aveva raccolte, e già si parlava di un pegno di amicizia che oltre alle navi cariche di frumento giunte in quei dì, la vecchia ca­pitale normanna avrebbe mandato a Messina. Occorreva per non lasciar intiepi­dire gli animi, e per tener vivo quel ri­sveglio di sentimenti, era necessario mandare e tenere a Palermo degli emis­sari adatti.
La scelta cadde sopra don Pietro Fa­raona e Paolo Moleti, due cittadini colpi­ti di bando dopo i tumulti del 13 aprile, ai quali, per consiglio di don Tommaso de Gotho, fu aggiunto Antonello.
Don Annibale sussultò di gioia; vol­le guardare in volto il giovane, per goder­sela, supponendo che quell'incarico, per quanto patriottico, non gli sarebbe pia­ciuto gran che. E difatto Antonello era rimasto scon­certato, e non sapeva frenare il malcontento per quell'incarico che lo allontana­va da Messina, dove riteneva in quei giorni necessaria la sua presenza.
Intanto l'adunanza passava ad altri argomenti, che attirarono ancor più l'at­tenzione di don Annibale. Parlava don Tommaso Caffaro, ar­dentissimo Malvizzo e uno dei più reputati e autorevoli della Setta. Cominciò col ricordare le condizioni di Messina, e co­me la venuta e la dimora del viceré, piut­tosto che pacificare gli animi, si fosse tra­mutata in una nuova tirannia.
- Egli, dice il Caffaro, concita­tamente, ha calpestato anche quelle prerogative senatorie, che perfino quel mostro di don Luigi de l'Hoyo aveva ri­spettato; ricordatevi, amici e compagni, che coloro i quali osarono protestare n'ebbero la morte; ricordatevi che dinan­zi alla chiesa di S. Girolamo, pochi mesi or sono, fu esposto a ludibrio e sfida, il capo del cavaliere Cavatore, assassinato dal viceré per avere difeso la dignità del Senato; e che ivi, il giorno stesso, un gio­vinetto sedicenne, Antonino Scoppa, la­sciò la vita sulla forca, per essere stato il primo a levar la voce; ricordatevi che questo giovinetto morì legando a noi, te­stamento indestruttibile e sacro, le sue ul­time parole: “Muoio contento e glorioso per avere difeso la patria mia”. Saremo noi sordi? ci lasceremo vincere di ma­gnanimità da questo giovinetto popola­no, che gitta la sua vita ancor tenera, per la dignità della sua Messina?... E intanto che i nostri buoni cittadini vengono immolati, il principe di Ligay, questo viceré sanguinario e balordo, tie­ne ricevimenti e balli, e dà mano ai nostri avversari, che sono gli avversari di Messina!
“Ora è tempo di agire. È tempo di uscire dalla nostra aspettazione. Da Ro­ma ci giungono altre voci ed altre sollecitazioni. Non vi dico di tenerci alle parole di don Giacinto Ferrari, e ai patti firmati con lui per avere gli aiuti di sua maestà cristianissima, di altre parole, di altre sollecitazioni, che ci vengono da uomini della cui serietà nessuno dubita.
“L'ambasciatore duca di Estrées, è disposto verso di noi; ma occorre che noi ci moviamo; e per muoversi bisogna ap­profittare dell'amicizia di Palermo, dei malumori di Trapani, delle assicurazioni di Catania...


Luigi Natoli: I cavalieri della Stella o La caduta di Messina.
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