Non aveva nessun dubbio che quella fosse la Setta,
la quale aveva in quei giorni esteso di più le sue ramificazioni oltre il
numero dei settanta, premendo ai suoi capi di avere il maggior numero possibile
di seguaci. La nobiltà messinese, avversario da
combattere potente. Aveva per sè la ricchezza, la coltura, la tradizione;
vagheggiava anche – ma non palesemente – ideali di una più larga autonomia, e
forse anche di indipendenza dalla monarchia spagnola; aveva infine nel
suo grembo un organismo potente, non ignoto al governo, ma quasi invulnerabile: una società segreta, una specie
di carboneria e di frammassoneria, di settanta membri, chiamata
appunto per questo numero, la Setta, della quale soltanto i capi conoscevano lo scopo,
ma i cui membri erano fedeli, arditi, capaci di tutto, e contavano grandi
aderenze nel patriziato e nelle maestranze. Giovanni Alfonso Borrelli, il grande
scienziato che insegnava le dottrine galileiane nello studio di Messina aveva
fondata o riordinata questa associazione segreta; specie di carboneria o di
massoneria che aveva finalità politiche, l'indipendenza dallo straniero e la
repubblica.
Per la prima volta, dopo secoli
di discordia e di sorde rivalità, i cittadini di Messina comprendevano che
soltanto dall'unione delle maggiori città poteva il regno acquistare la forza per liberarsi dal giogo
straniero, o, almeno, per garantire i propri
diritti e non lasciarsi spogliare dall'ingordo
padrone; comprendevano che, come ai tempi del Vespro, Messina e Palermo
dovevano gittare in un rogo le loro rivalità, i loro rancori, per sentirsi
veramente sorelle, difenditrici e protettrici di tutta l'isola.
Messi segreti erano stati spediti dalla Setta, ai
maggiori cittadini di Palermo, per stringere un nuovo patto di amistà, per la
comune difesa. Palermo non doveva dimenticare ciò che aveva patito dopo la
rivoluzione del 1647, e i suoi cittadini più illustri, come Francesco Barone,
Simone Rau, Antonino Giudice, Giuseppe La Montagna, gittati nelle galere o
nelle segrete più orrende, o mandati a morte; i monumenti più antichi e
venerandi per memorie, smantellati per farne bastioni a offesa della città; gli
accresciuti balzelli, la miseria crescente... Si ricordava Trapani in tumulto,
e i supplizi che vi erano seguiti; si vaticinavan altri e più crudeli supplizi
nelle maggiori città, solo che avessero osato levar la voce...
Tutte queste cose i messi della
Setta avevano detto, e le loro parole non eran rimaste infruttuose; Palermo le
aveva raccolte, e già si parlava di un pegno di amicizia che oltre alle navi
cariche di frumento giunte in quei dì, la vecchia capitale normanna avrebbe
mandato a Messina. Occorreva per non lasciar intiepidire gli animi, e
per tener vivo
quel risveglio di sentimenti, era
necessario mandare e tenere a Palermo degli emissari adatti.
La scelta cadde sopra don
Pietro Faraona e Paolo Moleti, due cittadini colpiti di bando dopo i tumulti
del 13 aprile, ai quali, per consiglio di don Tommaso de Gotho, fu aggiunto
Antonello.
Don Annibale sussultò di gioia; volle guardare in
volto il giovane, per godersela, supponendo che quell'incarico, per quanto
patriottico, non gli sarebbe piaciuto gran che. E difatto Antonello era
rimasto sconcertato,
e non sapeva frenare il malcontento per
quell'incarico che lo allontanava da Messina, dove riteneva in quei giorni
necessaria la sua presenza.
Intanto
l'adunanza passava ad altri argomenti, che attirarono ancor più l'attenzione
di don Annibale. Parlava don Tommaso Caffaro, ardentissimo Malvizzo e uno dei
più reputati e autorevoli della Setta.
Cominciò col ricordare le condizioni di Messina, e come la venuta e la dimora
del viceré, piuttosto che pacificare gli animi, si fosse tramutata in una
nuova tirannia.
- Egli, – dice il Caffaro, concitatamente, – ha
calpestato anche quelle prerogative senatorie, che perfino quel mostro di don
Luigi de l'Hoyo aveva rispettato; ricordatevi, amici e compagni, che coloro i
quali osarono protestare n'ebbero la morte; ricordatevi che dinanzi alla
chiesa di S. Girolamo, pochi mesi or sono, fu esposto a ludibrio e sfida, il
capo del cavaliere Cavatore, assassinato dal viceré per avere difeso la dignità
del Senato; e che ivi, il giorno stesso, un giovinetto sedicenne, Antonino
Scoppa, lasciò la vita sulla forca, per essere stato il primo a levar la voce;
ricordatevi che questo giovinetto morì legando a noi, testamento indestruttibile
e sacro, le sue ultime parole: “Muoio contento e glorioso per avere difeso la
patria mia”. Saremo noi sordi? ci lasceremo vincere di magnanimità da questo
giovinetto popolano, che gitta la sua vita ancor tenera, per la dignità della
sua Messina?... E
intanto che i nostri buoni cittadini vengono immolati, il principe di Ligay,
questo viceré sanguinario e balordo, tiene ricevimenti e balli, e dà mano ai
nostri avversari, che sono gli avversari di Messina!
“Ora è tempo di agire. È tempo di uscire dalla nostra
aspettazione. Da Roma ci giungono altre voci ed altre sollecitazioni. Non vi dico di tenerci
alle parole di don Giacinto Ferrari, e ai patti firmati con lui per avere gli
aiuti di sua maestà cristianissima, di altre parole, di altre sollecitazioni,
che ci vengono da uomini della cui serietà nessuno dubita.
“L'ambasciatore
duca di Estrées, è disposto verso di noi; ma occorre che noi ci moviamo; e per
muoversi bisogna approfittare dell'amicizia di Palermo, dei malumori di
Trapani, delle assicurazioni di Catania...
Luigi Natoli: I cavalieri della Stella o La caduta di Messina.
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