lunedì 16 marzo 2015

Luigi Natoli - Primo capitolo de "La signora di Carini" di Luigi Natoli: l'altro volto della baronessa di Carini secondo gli studi di Luigi Natoli e Giuseppe Pitrè.

Della leggenda di Luigi Natoli "La signora di Carini", apparsa sul Giornale di Sicilia il 31 agosto 1910,  offriamo ai lettori di Luigi Natoli (e del nostro blog) il primo capitolo.
 La leggenda è pubblicata oggi nel volume "La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue..." edito da I Buoni Cugini Editori di Ivo Tiberio Ginevra.
 
I.
 
In silenzio, nell’ombra della sua camera, la fanciulla piangeva. Un dolore disperato le lacerava il cuore. Non avrebbe mai sospettato una perfidia di quel genere, che le squarciava a un tempo la cara e dolce fiducia in coloro che essa amava di più, e il velo che le avvolgeva ancora agli occhi verginali il dolce e indefinito mistero dell’amore. Anzi aveva tolto all’amore quel profumo di ignoto che era la fonte di quell’incantevole malinconia nella quale vagavano i suoi pensieri e i suoi sogni.
Ella aveva veduto!
E i sogni si erano infranti miseramente; e l’orrore, l’angoscia, lo sgomento imprimibile di ciò che aveva veduto, di quello che aveva perduto irreparabilmente, la gittavano singhiozzando col volto affondato sui guanciali.
Oramai in quel castello si sentiva estranea; qualche cosa aveva violentemente troncato tutti i legami che la univano alle persone con le quali coabitava, alle quali aveva fino allora portato un affetto fiducioso, sincero, profondo, devoto.
Tutto era finito! finito!
Egli le appariva un uomo mostruoso; la tenera poesia di cui lo aveva circondato si era dileguata a un tratto. Nessun colpo di vento spazzò così gagliardamente nebbia o fumo, come la orribile visione aveva fatto della sua poesia.
Ora si domandava affannosamente:
- Che fare?
Sì, che cosa doveva fare?
Rimanere e tacere?
Lo sdegno, la dignità offesa, il ribrezzo, le imponevano nel suo cuore:
- No; tu non devi restar più di un’ora in questa casa infame!
Andarsene dunque e rivelare il perché?
La collera, l’odio, la gelosia, la vendetta, le ruggivano:
- No! tu devi restare; rivelare la bruttura che offende te, la tua casa, tuo padre, l’onore del tuo nome, e trarne vendetta!
Ma un’altra voce, rimprovero, ammonimento, preghiera a un tempo, le suggeriva con tono accorato:
- È tua madre, Caterina!... tua madre!
Ah sì! era sua madre! Lo sapeva bene ella e questo appunto inacerbiva la sua piaga e la rendeva folle.
Così trascorse la notte; al mattino, uscì dalla sua camera con gli occhi rossi e gonfii, il volto disfatto, pallido. La vista della madre la fece ancor di più impallidire e quasi quasi venir meno.
- Che cos’hai? – le domandò la madre premurosamente.
A questa domanda e alla voce materna si riscosse, una espressione di fierezza sdegnosa le si dipinse sul volto.
Rispose seccamente:
- Nulla, signora madre.
Disse la parola madre, con una amarezza e con un fremito di orrore.
Verso mezzodì arrivò da Palermo il nobili uomo don Vincenzo La Grua e Talamanca, barone di Carini. Il giorno innanzi era andato per sue faccende alla capitale; ora ritornava nel suo bel castello di Carini, dove soleva passare alcuni mesi dell’anno, con la famiglia.
Il suono dei corni, il cigolìo delle catene che abbassavano il ponte levatoio, lo scalpitio dei cavalli, il frettoloso accorrere della servitù, il propagarsi dell’annuncio: –  “È venuto il padrone” – tutto ciò aveva empito il castello di rumore e di vita.
I figli andarono a baciar la mano al padre, nell’anticamera, dove lo aspettavano. Quando venne la volta di Caterina, don Vincenzo sentì che la mano della figliuola tremava, e che alle sue labbra v’era come il fremito d’un singhiozzo.
Se ne stupì; quando si trovò solo con la moglie, le disse:
- Avete veduto, donna Laura, che viso ha Caterina?
- Sì, le ho domandato se si sentisse male, mi ha risposto di no... Fino a iersera stava buona ed era allegra... Non so che sia...
E aggiunse sorridendo da donna esperta:
- Cose da fanciulla. Qualche ubbìa!...
Non se ne parlò più; ma verso l’Ave Maria la fanciulla pregò il padre di concederle una breve udienza.
Don Vincenzo se ne stupì: che cosa c’era di nuovo? Che cosa era avvenuto durante la sua breve assenza?
- Ebbene, – disse – parla pure...
- Vossignoria mi permette, prima?...
Andò a chiudere la porta; precauzione che accrebbe lo stupore del barone di Carini.
La fanciulla stette un minuto immobile, pallidissima, coi grandi occhi chinati per terra. Don Vincenzo la guardava stupefatto, curioso e pietoso a un tempo.
- Dunque? – domandò con dolcezza incoraggiante – parla? Che cos’hai?
Allora Caterina gli si buttò ai piedi, supplichevole, con le mani giunte:
- Signor padre, son qui per supplicarvi come Gesù, perché mi concediate una grazia...
- Oh! oh! – disse il barone sforzandosi di prender la cosa in ischerzo, ma agitato da una certa ansia – Cose grosse dunque?...
- Vi prego, vi supplico, vi scongiuro per quanto avete di più sacro al mondo, di permettermi che io mi faccia monaca.
Don Vincenzo La Grua balzò sulla sedia, guardò la figliuola, ruppe in una risata:
- Ah! ah! ah!... Cotesta è buffa!... Farti monaca? E Vernagallo, si farà monaco anche lui?
Al nome di Vernagallo, il volto di Caterina si contrasse orribilmente; pure ella si dominò e con voce fioca, ma ferma, disse:
- Se vorrà farsi frate sarà un bene per l’anima sua; ma io vi prego, signor padre, di sottrarmi a queste nozze... Sento una vocazione ineluttabile pel monastero... Mandatemi di nuovo nel monastero, per professarmi...
Il barone la guardava, passando da uno stupore all’altro; certamente il volto ella fanciulla doveva esprimere un’angoscia, una tortura così grande e tremenda, che egli capì doversi trattare di cosa ben grave.
- Ma dunque dici davvero?... Ma come?... perché?... Bisognerebbe che le ragioni siano tali e tante da impormi quasi il dovere di ritirare una parola data. Sai bene che fra noi e i nostri parenti Vernagallo non c’è stato buon sangue, per via d’interessi; e questo matrimonio stabilito da quando tu eri piccolina così, doveva suggellare la pace fra le due famiglie... Che cosa è avvenuto da ieri a oggi?
- Oh no, – disse con torva tristezza la fanciulla – non da ieri... è più lungo assai... L’ho maturata nella mia mente, signor padre, e sento di non esser fatta pel matrimonio... Mi spaventa... ne ho orrore!...
- Bah! Cose da ridere!...
- No, no, signor padre, ve lo giuro... È una cosa orribile... Non mi costringete a questo matrimonio. Ne morrei, ne morirò!...
Il barone aggrottò le sopraciglia, e con parola recisa e dura, rispose:
- Basta. I baroni di Carini non hanno mai ritirata la loro parola. Sono oramai dieci anni che questo matrimonio è deciso, e si farà. Strano! Fino a ieri tu ne eri contenta e lieta; come mai, improvvisamente t’è venuto tanta avversione?
- Non lo so, – balbettò la fanciulla.
- È stato un sogno?
- Sì, sì, un sogno, un orribile sogno!... Ah che visione, signor padre!... Non può dirsi, non posso dirlo; è una cosa troppo forte... ma è così, come le dico: questo matrimonio è la mia morte... Perché vuol farmi morire? Perché non mi salva dalla morte e dalla disperazione? Perché mi vuol far perdere eternamente, corpo ed anima?...
Si esaltava supplicando, con le mani aperte, disperatamente.
Il barone non pareva persuaso: sentiva che sotto quelle parole c’era un mistero: ma quale? Un sospetto gli attraversò la mente. Sebbene il castello fosse sicuro, e i suoi facessero buona guardia, e non era possibile entrarvi, tuttavia il sospetto balenò.
Prese Caterina per la mano, e figgendole gli occhi negli occhi, le domandò scandendo le parole in modo significante:
- Ludovico avrebbe forse compiuto contro di te qualche mancanza...
Caterina trasalì, titubò.
- T’avrebbe offesa? – insistette il padre.
Ella fece forza a sé stessa, e rispose:
- No... non mi ha offesa...
Don Vincenzo sentì che nella risposta della figlia c’era invece una affermazione.
- Proprio?... Lo giuri?...
Caterina si sentiva lacerarsi l’anima. Con voce soffocata disse:
- Lo giuro...
Il barone tacque: guardò la figliola, torbido, chiuso, maturando forse un’idea.
- Sta bene; ne parleremo poi. Va nella tua camera.
La fanciulla si chiuse nella stanza piena del suo dolore, e si abbandonò interamente all’angoscia frenata nel colloquio col padre. Le idee più disparate, i propositi più opposti, la coscienza di aver mentito giurando il falso, il disgusto la collera, la ribellione, tutti questi sentimenti facevano un tumulto tremendo nell’anima sua. Ora si pentiva d’aver taciuto la verità, e si domandava perché. Paura forse? Aveva voluto risparmiare un dolore al padre? aveva voluto sottrarre la madre? Aveva obbedito a un sentimento di pudore? Non lo sapeva! Questo solo sapeva invece, che ella sarebbe stata immolata a quel matrimonio odioso.
“I baroni di Carini non hanno mai ritirato la loro parola...”
E se non ritirandola si facevano complici di un’infamia?...

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