Il teatro era vuoto; si
costituiva di una stanza, anzi di un piccolo magazzino, col soffitto di travi,
imbiancato; nelle due pareti si vedevano due palchi, uno di fronte all’altro.
Palchi egli li chiamava; il realtà erano due corridoi pensili larghi appena da
potervi star seduti: tinti di color cilestrino, con dei disegni in rosso, che
non si sapeva bene cosa rappresentassero. Dei banchi erano disposti in fila
nella platea, e in quel momento erano sparsi di armature, di vesti, di pupi.
Perché – e forse è superfluo dirlo – il teatro di don Calcedonio era la spettabile
“Opera dei Pupi”, o, come si leggeva dipinto sulla porta d’ingresso, “Teatro di
marionette”.
V’era, in fondo, il
palcoscenico vuoto, desolante come quello di un teatro vero nelle ore del
giorno, quando si fa la pulizia. Non scene, non sipario; l’ombra avvolgeva
tutte le cose; nello sfondo apparivano il muro senza intonaco, i travicelli dell’armatura
scoperti, e di qua e di là appesi, alla rinfusa una grande quantità di pupi,
maschi e femmine, cristiani e saraceni che tra l’ombra mandavano dei bagliori,
dove le armature prendevano luce in riflesso. I lumi della ribalta spenti,
mostravano nelle spelature della tinta esterna del riverbero, la meschinità
della latta. E tutto v’era meschino, il frontespizio o vuoi dire la bocca
d’opera, dipinta di un color cenere, con delle strisciole bianche e grigie che
fingevano cornici di stucco; i panneggi rossi che incorniciavano la scena,
dipinta in modo spaventevole, e che pur formava la delizia degli occhi del
minuscolo popolo degli spettatori; l’aria stessa che vi si respirava.
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