
V’era, in fondo, il
palcoscenico vuoto, desolante come quello di un teatro vero nelle ore del
giorno, quando si fa la pulizia. Non scene, non sipario; l’ombra avvolgeva
tutte le cose; nello sfondo apparivano il muro senza intonaco, i travicelli dell’armatura
scoperti, e di qua e di là appesi, alla rinfusa una grande quantità di pupi,
maschi e femmine, cristiani e saraceni che tra l’ombra mandavano dei bagliori,
dove le armature prendevano luce in riflesso. I lumi della ribalta spenti,
mostravano nelle spelature della tinta esterna del riverbero, la meschinità
della latta. E tutto v’era meschino, il frontespizio o vuoi dire la bocca
d’opera, dipinta di un color cenere, con delle strisciole bianche e grigie che
fingevano cornici di stucco; i panneggi rossi che incorniciavano la scena,
dipinta in modo spaventevole, e che pur formava la delizia degli occhi del
minuscolo popolo degli spettatori; l’aria stessa che vi si respirava.
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