"Angelica! Egli la chiamava ancora “la piccola” ma era cresciuta, toccava i sedici anni e frequentava la scuola normale. La scuola normale? Eh buon Dio! Non aveva potuto farne a meno; un po’ di istruzione si doveva alle fanciulle, e poi ella studiava per fare la maestra elementare. Salirebbe così un gradino più in alto dei suoi genitori. Ma quel Cicciarello don Calcedonio l’aveva sullo stomaco. Che cosa? sposarla? Chi: un barbiere? Lei che era una maestra? Ma non mi fate ridere! Fosse stato un impiegato del Municipio o dello Stato, un impiegato di concetto (ben inteso), “transeat”. E poi Angelica era molto bellina; un po’ piccolina, ma ben fatta; aveva i capelli castani ondulati, che le inquadravano il viso bianco e roseo. Non poteva dire quanta cipria e quanto rossetto ci fossero sotto quella bianchezza e le labbra erano troppo rosse, per avere un colore naturale, ma avevano una linea, parola d’onore, che facevano venire la voglia di morderle come ciliegie. E gli occhi! Che occhi! Non erano neri, non azzurri, non castani; avevano un colore indefinito con delle pagliuzze d’oro, bruni, grandi: ma quando guardavano, Dio! Che sguardi! Ti scendevano in fondo all’anima, te la scombussolavano, non sapevi più in che mondo tu fossi, né cielo, né in paradiso né in inferno, o piuttosto in tutti e due. E lei, assassina! Lo sapeva; e quando rideva gli occhi le ridevano, e tu tremavi, e dicevi di sì, anche quando la ragione ti diceva di no".
La camera di Lillì era
relativamente la più bella. Era solo imbiancata, ma Lillì l’aveva trasformata;
tendine alla finestra, il letto di ferro tinto in bianco, il comodino, uno
scendiletto da poche lire, un tavolino coi libri in ordine, l’avrebbero fatta
scambiare per una camera da studente, se non fosse stato per la toletta che
rivelava la donna. Era piena di boccette, di spazzolini, di scatolette di
crema, di cipria, di rossetto per le labbra, di ferri per arricciare. Perché
Lillì o piuttosto la signorina Lillì (ella si firmava Lilly), da quando aveva
toccato i quattordici anni, era divenuta alunna della scuola normale (così
allora si chiamava l’istituto magistrale superiore), aveva cominciato a usare i
profumi e a darsi l’aria di signorina.
La scuola normale!
Veramente avrebbe dovuto frequentare la professionale; sarebbe stata più adatta
per lei, ma donna Concettina si era incaponita che la figlia dovesse nobilitare
la casa. Che sarta! che modista! Una maestra doveva essere. E a furia di
sacrifizi, di assottigliare il pane, di rinunciare alle cose più necessarie,
aveva pagate le tasse e aveva vestita la figliola in modo da non sfigurare. E a
poco a poco l’animo di Angelica s’era trasformato; ella si era fatta chiamare
Lillì, sembrandole più signorile che si dovesse allungare le labbra per
pronunciare il suo nome; e poi quel nome le appariva quasi di una persona
diversa, di una persona “per bene”. Che cosa fosse una persona per bene non sapeva
figurarselo, benché frequentasse la scuola normale; le caratteristiche morali
le sfuggivano, o meglio credeva che stessero nel formalismo di certe pratiche
esteriori. Per questo cominciava a sentirsi un po’ male in quella casa e in
quel vicolo; e quando qualche volta un’amica l’accompagnava, ella aveva cura di
separarsi da lei prima di arrivare a casa.
Dopo essersi guardata ed
ammirata, si vestiva continuando ad osservare nello specchio le proprie mosse,
studiandole perché non perdessero nulla della loro grazia. Ah, perché lo
specchio non era grande abbastanza da potercisi ammirare tutta dal capo alle
piante? Ogni tanto si voltava di profilo, studiando la linea del corpo; si
torceva in modo da vedersi le spalle e le reni falcate. Ma poi ahimè! si
guardava intorno, e la tristezza le allungava il viso. La sua camera non era
quella che la sua fantasia le dipingeva nei sogni o che vedeva nei film al cinematografo.
Quelle pareti bianche di calce stridevano con le cure, che prodigava al suo
corpo; erano squallide; il suo letto di ferro pareva quello di un collegio, con
la coperta di cotone.
Ella si profumava abbondantemente
ma i suoi profumi non erano davvero di Houbigant o di Coty. Quella camera le
era insoffribile, e quel vicolo poi la offendeva.
(Disegno di Niccolò Pizzorno - Quarta di copertina del volume Fioravante e Rizzeri di Luigi Natoli edito I Buoni Cugini Editori)
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