mercoledì 13 marzo 2019

Luigi Natoli: La condanna del prigioniero. Tratto da: Cagliostro e le sue avventure

La condanna era crudele; oltre alla segregazione in quella piccola, fetida, umida segreta, senza altro mobile che un banco di pietra sul quale era disteso uno schifoso pagliericcio; era obbligatorio il digiuno rigoroso per tre giorni della settimana: pane e acqua negli altri, una minestra di legumi nauseabonda le domeniche. La sua salute ne aveva sofferto; i suoi muscoli, la sua carne se ne erano logorati.
Egli non poteva sorreggersi con la speranza di una liberazione prossima o lontana che fosse.
La pietà del papa lo aveva condannato in quella prigione, fin che gli rimanesse un respiro di vita. Era una morte lenta e disperata, sostituita a quella violenta, per mano del carnefice.
E la chiamarono grazia!
Da quando era entrato nel forte, ed eran quattro anni, dopo un processo laborioso, Giammaria era la prima persona con la quale discorreva; per quattro anni era stato relegato nel silenzio della segreta, guardato con disprezzo e terrore; oggetto di scherni e di crudeltà, contro le quali non poteva reagire. Nessuno doveva parlare con lui; neppure il barbiere, che una volta al mese radeva i prigionieri, non già per igiene o per decenza, ma perché la barba era segno di giacobinismo.
Aveva dovuto infingere una rassegnazione che non sentiva; ma era forse effetto della debolezza fisica, questa che gli pareva forza di rassegnazione.
La fortezza o castello era come l’acropoli del vecchio borgo, che, più a valle, era difeso anche da muraglia e da altri fortilizi a tramontana e a occidente, prime sentinelle in difesa dell’inespugnabile castello.
La prigione dell’ “eretico” era nel mastio; era una cella larga tre passi, o poco più, con la volta alta una statura d’uomo e mezza; e una finestretta a quattro palmi dal suolo.
Il prigioniero poteva quindi affacciarvisi comodamente e guardare lo spazio libero ed ampio. L’occhio scendeva giù fra le macchie, errava sui tetti e per le strade del borgo sottostante, si fermava a guardare il duomo e l’alta torre; poi scorreva oltre, guardava i due fortilizi, dei quali sapeva già il nome: il Palazzetto e il Casino; e vedeva indi come un taglio, come una grande fenditura, che isolava il monte. Indovinava che in fondo vi correva il fiume: più oltre ne vedeva fra poggi e boscaglie luccicare l’argento delle acque.
E più lontano ancora poggi e colli si succedevano come in uno scenario, degradando in tinte più azzurrine e più sfumate; e sull’orizzonte si disegnava di qua la Carpegna, di là, più in fondo la linea degli Appennini.
L’occhio non poteva scorgere che meno della metà dell’orizzonte; ma quanti desideri tormentosi! Fra quei colli, sopra un monte era S. Marino, la piccola repubblica; più oltre, a occidente, lo stato di Toscana; alle sue spalle l’Adriatico. Erano la libertà e la salvezza!...
Si potevano raggiungere tutti questi luoghi in mezza giornata, anche in minor tempo, camminando per boschi, quasi sicuro di non esser veduto, di poter sfuggire a un inseguimento.
Uscire da quel recinto!...
L’aveva tentato quella notte famosa; e per poco non era riuscito. Per sei lunghi mesi aveva lavorato a segare le spranghe della finestretta, con la pazienza e la continuità di un tarlo. La provvidenza gliene aveva fatto scoprire lo strumento.
Un giorno mentre, pensando, scalzava con la punta del piede il terriccio accumulato dinanzi al banco di pietra; senza neppur avvedersene ecco balzar fuori una punta metallica, che dapprima era sfuggita alla sua attenzione; la cui resistenza all’urto del piede, destò la sua curiosità; si chinò e la tolse, e con suo stupore riconobbe un mozzicone di piccola lima.
Qualche altro prigioniero ve l’aveva certamente nascosta. Egli si sentì rimescolare, parendogli quella una rivelazione della volontà del cielo, che gli indicava la via per uscire da quella prigione. Una fede operosa gli accese l’animo, la speranza lo incorò; egli credette nella sua fortuna, nel suo avvenire: sentì quasi aleggiargli sul volto la fresca aria degli Appennini.
Lavato più volte quel pezzo di acciaio, per toglierne il terriccio che v’era attaccato, e asciugatolo lo conservò dentro il pagliericcio; e la sera, seduto sulla soglia nella finestra, cominciò dolcemente a grattare il ferro delle spranghe.
Quel lavoro durò sei mesi, in capo ai quali le spranghe furon segate da tre parti. Il prigioniero aspettò la sera per tirar a sé l’inferriata, e aprirsi un varco.
Disteso sul largo spessore del muro, spinse il capo fuori di quel varco, e guardò fuori. Non s’aspettava che la finestra fosse così alta; e che fra il mastio e la cortina si interponesse un tratto di terreno.
Bisognava scendere giù per la muraglia, approfittando dei buchi e dei cespugli di capperi e violaciocche; ma per farlo con successo era necessario studiare la muraglia. Ogni sera, prima che annottasse, egli, da quell’osservatorio, interrogava la muraglia; poi rimetteva l’inferriata a posto in modo che nessuno se ne accorgesse.
Quando gli parve di esser sicuro, approfittando di una notte senza luna, tentò di evadere.
L’impresa era ardua, pericolosa, pazza: ma non era preferibile cadere e sfracellarsi e morire d’un colpo, piuttosto che spegnersi a poco a poco in quell’antro?
Cautamente, senza far rumore, cominciò a calarsi. La finestra rimaneva protetta da una delle torricelle del mastio: la sentinella stava sonnecchiando nel torrione opposto, e non poteva vederlo. Guadagnò la spianata: il cuore gli scoppiava dalla commozione, un sudor freddo gli bagnava la fronte. Raccolse le sue forze, e rapidamente corse al muro della cortina e scavalcò il parapetto.
La sentinella destatasi e accortasene, gridò:
- Chi va là?
Egli ebbe paura d’essere scoperto, e si smarrì. Credette di non poter aver scampo che nell’affrettarsi a scendere, e mise un piede in fallo.
Precipitò nel fossato. La sentinella sparò.
Così quel tentativo, fino a quel punto riuscito bene, andò a vuoto per un miserabile sassolino.
Bisognava ritentare la fortuna…


Luigi Natoli: Cagliostro e le sue avventure. Romanzo storico dove protagonista è Giuseppe Balsamo, alias Conte di Cagliostro. 
Nell'unica versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914
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