martedì 19 marzo 2019

Luigi Natoli: il teatro di don Calcedonio. Tratto da Fioravante e Rizzeri

Il teatro era vuoto; si costituiva di una stanza, anzi di un piccolo magazzino, col soffitto di travi, imbiancato; nelle due pareti si vedevano due palchi, uno di fronte all’altro. Palchi egli li chiamava; il realtà erano due corridoi pensili larghi appena da potervi star seduti: tinti di color cilestrino, con dei disegni in rosso, che non si sapeva bene cosa rappresentassero. Dei banchi erano disposti in fila nella platea, e in quel momento erano sparsi di armature, di vesti, di pupi. Perché – e forse è superfluo dirlo – il teatro di don Calcedonio era la spettabile “Opera dei Pupi”, o, come si leggeva dipinto sulla porta d’ingresso, “Teatro di marionette”.
V’era, in fondo, il palcoscenico vuoto, desolante come quello di un teatro vero nelle ore del giorno, quando si fa la pulizia. Non scene, non sipario; l’ombra avvolgeva tutte le cose; nello sfondo apparivano il muro senza intonaco, i travicelli dell’armatura scoperti, e di qua e di là appesi, alla rinfusa una grande quantità di pupi, maschi e femmine, cristiani e saraceni che tra l’ombra mandavano dei bagliori, dove le armature prendevano luce in riflesso. I lumi della ribalta spenti, mostravano nelle spelature della tinta esterna del riverbero, la meschinità della latta. E tutto v’era meschino, il frontespizio o vuoi dire la bocca d’opera, dipinta di un color cenere, con delle strisciole bianche e grigie che fingevano cornici di stucco; i panneggi rossi che incorniciavano la scena, dipinta in modo spaventevole, e che pur formava la delizia degli occhi del minuscolo popolo degli spettatori; l’aria stessa che vi si respirava.
Quella mattina aveva lucidato l’armatura di Fioravante; elmo, corazza, schienali, bracciali e cosciali di nichel, rabescati d’ottone dorato, risplendevano come argento e oro. Fioravante era disteso su un’altra panca, i tre fili di ferro che gli reggevano il capo e le braccia, congiunti insieme, gli davano una posa da guerriero aspettante; la visiera alzata gli scopriva il viso immobile con gli occhi fissi; la veste, corta al ginocchio, verde, color della speranza, ornata di tre file di passamani d’oro, gli pendeva in pieghe simmetriche; e la spada, la terribile Durlindana, che poi avrebbe ereditato Orlando, gli giaceva al fianco. Oh, era un bel paladino Fioravante. Tutta la mattina don Calcedonio l’aveva occupata con lui. Non conosceva risparmio per i paladini; egli vi spendeva anche più che non potessero le sue forze; alcune armature gli costavano fino a cinquecento lire: quella di Orlando per esempio, tutta dorata, con i gomiti, le spallacce, le ginocchiere che parevano argento, e lo scudo con la croce d’oro, che rifulgeva come un sole. Ma Orlando era il paladino maggiore, e conveniva vestirlo meglio degli altri; la sua veste bianca pareva intessuta di gigli e i ricami parevano una pioggia di botton d’oro. Peccato, che avesse gli occhi storti!
Ma don Calcedonio non pensava a lui. Pur continuando a contare le travi del soffitto, la sua mente era piena di Fioravante e di Mambrino, del quale aveva nella mattinata ripulito l’armatura. Questa era diversa da quella di Fioravante, perché Mambrino era saraceno, e i saraceni, si sa, vanno vestiti diversamente. Hanno l’elmo senza visiera, con un turbante attorcigliato e una specie di chiodo in cima, donde scaturiscono le piume. E hanno le brache corte fino al ginocchio, e la scimitarra.
Veramente i romanzi di cavalleria che egli leggeva, dicevano che i guerrieri saraceni erano vestiti come i cristiani; le stesse armature, come lo stesso linguaggio cavalleresco, gli stessi usi; la differenza era che i cristiani giuravano per Gesù e per la Vergine Maria, i saraceni per Macone, Maometto, Apolline, Belial. Ma don Calcedonio vestiva i cavalieri cristiani come i giostranti del secolo XVI, e i saraceni come i turchi dei secoli posteriori. Era tutt’uno per lui!
Aveva ripulita la corazza di Finaù, figlio del re Balante, che regnava in Scondia; una bell’armatura, tersa e lucente, che faceva abbagliare a mirarla, con un sole raggiante in mezzo, e l’elmo sormontato da una pennacchiera rossa, che ondeggiava al minimo movimento.
Quella sera Fioravante avrebbe combattuto Finaù; era un duello mortale; si sapeva che Finaù sarebbe stato ucciso, nondimeno il duello si presentava agli spettatori dubbio, nonostante fossero in due a combatterlo, Fioravante e Tibaldo di Lima. L’armatura di questo cavaliere era già pronta dal giorno innanzi. Era di ottone, e pareva d’oro, ma rimaneva di minor valore di quella di Fioravante; anche il gonnellino non aveva i ricami di quello; era pavonazzo, filettato di oro.
Don Calcedonio teneva gli occhi al soffitto, ma la sua mente si perdeva dietro ai paladini; correva dietro a loro e studiava le parole più sonanti e i gesti più appropriati. Dove li metterebbe? Fioravante a destra, Finaù a sinistra, Tibaldo in mezzo. Combattevano. Ta ta tata, ta ta tata, ta ta tata, ta ta ta, ta a a a. Don Calcedonio a poco a poco si addormentò, e nel sonno continuava il combattimento. I pupi erano sul palcoscenico illuminato; la scena rappresentava una boscaglia, nella quale erano schierati gli eserciti, da una parte cristiani dall’altra saraceni. Folla. Erano vestiti poveramente, elmi e turbanti, e in mano avevano la lancia. Stavano immobili; poi i saraceni sarebbero fuggiti, e le lancie e le spade ne avrebbero fatto scempio.
Don Calcedonio dormiva e seguiva il gesto della mano che segnava le battute dei piedi dei combattenti. Ta ta tata… 
(Nella foto illustrazione del pittore Amorelli nella prima puntata di Fioravante e Rizzeri pubblicata sul Giornale di Sicilia del 1936)


Luigi Natoli: Fioravante e Rizzeri. Romanzo ambientato tra la  Palermo del 1920 e la storia dei Paladini di Francia nella parte del re Fioravante e del primo paladino Rizzeri, dove protagonista è don Calcedonio, puparo dell'epoca. 
Nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 31 dicembre 1936.
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