martedì 19 marzo 2019

Luigi Natoli: La causa. Tratto da: Fioravante e Rizzeri.

Cinque mesi erano trascorsi. Don Calcedonio e Lillì avevano ricevuto l’avviso che al Tribunale penale si sarebbe discussa la causa contro “Asdrubale Galante, imputato di omicidio mancato a danno di Calcedonio Dibella”.
La mattina del 26 novembre, dunque, padre e figlia si recarono al tribunale. Lillì era in cappellino e in un grazioso “manteau”, (così dicono i figurini che vengono di Francia: in realtà si chiamano in lingua italiana “cappotti”). Aveva intorno al collo una pelliccia, diciamo così di visone nella quale un cane lupo avrebbe riconosciuto le spoglie di uno sventurato fratello. Comunque ella faceva una graziosa figura. Il lettore si meraviglierà, dopo la distruzione fatta da don Calcedonio, di apprendere che Lillì era così ben vestita; ed ha ragione: ma vi sono parecchie osservazioni da fare. In primo luogo, una punizione familiare, per quanto rigorosa, non può durare a lungo; a poco a poco il rigore si va attenuando; si fa questa e poi quella concessione; la mamma osa intercedere, è ascoltata, e si finisce col lasciarsi strappare un perdono quasi completo. Poi, ci fu la citazione in Tribunale. Donna Concettina osservò che non era decente presentarsi al cospetto della maestà della giustizia senza, un come si dice? un “manteau” (alla moda – suggerì sottovoce Lillì) e un cappellino; e don Calcedonio, borbottando, dovette ammetterlo. E così Lillì si trovò il giorno dell’udienza vestita per benino. Una sola cosa don Calcedonio non tollerò, che si desse il rossetto alle labbra e lo smalto alle unghia, cose che non stavano bene in un luogo serio, qual’è l’aula di un Tribunale.
Già i testimoni erano pronti, aspettanti in un’altra saletta. C’era il tenente di artiglieria, le due guardie, due altri figuri che nessuno aveva visto, un commesso della pasticceria, Dolores e Lillì. E c’era la signora Mazzolino, non già perché gliene importasse più d’un fico, ma per l’occhio del mondo, entrando in quella faccenda anche sua figlia, una fanciulla di sedici anni che, per disgrazia, doveva deporre. Donna Concettina avrebbe voluto venire, ma tanto Lillì quanto don Calcedonio le imposero di restare in casa; del resto Lillì non era sola: c’era suo padre. 
Cominciò l’udienza. Il signor Galante non stava sul banco degli imputati, ma seduto sopra una seggiola. Era a piede libero, visto che lo sparo era andato a vuoto. Aveva chiacchierato col suo avvocato, e ora guardava il pubblico il quale era formato da giovani cosiddetti vitosi, suoi amici, coi quali scambiava saluti e sorrisi. Ma il suono di un campanello e la voce dell’usciere: – L’udienza è aperta! – imposero il silenzio.
(Tralasciamo tutte le particolarità che sarebbero noiose, e veniamo senz’altro all’interrogatorio di Asdrubale Galante).
…….

Facciamo grazia ai lettori del resto dell’udienza, che mercè l’eloquenza dell’avvocato finì con l’assoluzione del barone Galante; e non parliamo della signora Mazzolino, che se ne andò a casa tronfia e pettoruta; e fermiamoci a don Calcedonio, che andava cercando Lillì. Forse s’era smarrita tra la folla che circondava il Galante, comunque il babbo aveva un bel da fare a chiamarla di qua e di là: Lillì non si trovava. Don Calcedonio uscì, attraversò l’atrio, guardò fuori. Non c’era nessuno. Rifece le scale, invano. Pensò che fosse andata dai Mazzolino e andò a cercarvela; ma anche stavolta, invano. Anzi, la signora Mazzolino si lagnò contro Lillì che aveva svergognato la sua ragazza in pubblico, presentandola come fidanzata.
Andò all’ufficio “Passeggieri” della “Tirrenia”, ricordandosi improvvisamente che Lillì voleva partire, ma inutilmente. Don Calcedonio prese la via di casa: gli parve probabile che la figlia avesse cercato di riparare a casa al più presto possibile per la vergogna dell’incidente sorto nell’interrogatorio. Ma a casa non c’era. Ritarda – dissero i genitori – Aspettiamola. – E l’aspettarono, don Calcedonio con un furore crescente, donna Concettina con una paura che non sapeva spiegarsi. 
- Io non capisco come tu l’abbia smarrita!
- Era seduta accanto a me; potevo supporre che da un momento all’altro non l’avrei vista più?
- Ma l’hai cercata bene?
- L’ho cercata.
Don Calcedonio tornò ad uscire, ma per andare dove? Non lo sapeva. Ah! se l’avesse incontrata in quel momento! Stringeva la canna americana; pim! pam! Le avrebbe dato lui il gusto di andarsene! Già era notte, ed egli se ne tornò a casa.
- È venuta?
Gli rispose un grido d’angoscia seguito da un empito di pianto.
- Vo agli ospedali.
Non c’era stata nessuna disgrazia. Alla Questura? Gli ripugnava andare alla Questura; nondimeno andò. Non sapevano nulla, ma in ogni modo avrebbero telefonato ai Commissariati. Ritornò a casa. Oramai il sospetto, che fosse stata vittima di una disgrazia, era scongiurato. Non rimaneva che l’altro di una fuga, ma dove e con chi?
E ricominciarono le rampogne, i raffacci, gli improperi, e tutta la notte passò fra i pianti e le grida.
Addio Fioravante! addio Rizzeri! addio teatro! Per più sere tacquero i paladini; poi, una sera in un carretto, si videro le masserizie di don Calcedonio mutar luogo. Egli mutava quartiere.
(Nella foto: disegno del pittore Amorelli sul Giornale di Sicilia del 1936)




Luigi Natoli: Fioravante e Rizzeri. Romanzo moderno ambientato nella Palermo del 1920
Nella versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 31 dicembre 1936
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