lunedì 7 gennaio 2019

Luigi Natoli: Il cimitero dei giustiziati. Tratto da: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro.

Le soldatesche si raccolsero, si ordinarono, tornaron via; i preti si avvicinarono ai cadaveri, li benedissero, e si allontanarono anch’essi pallidi e convulsi; sul luogo infame rimasero, tra le panche rovesciate, quei nove corpi, che versavan sangue dalle orrende ferite; e pochi gendarmi e birri incaricati di fare eseguire l’ultimo ufficio.
Allora i confrati si avvicinarono; qualcuno si chinò per toglier le bende a quegli occhi che non vedevan più. Tullio, con le mani tremanti, volle sbendare il suo Giuseppe. Ahimè, quale scempio le palle austriache avevan fatto del mite e poetico giovane! Il colpo di grazia gli aveva sfracellato l’occipite, una palla gli aveva attraversato la gola, un’altra il cuore: pure gli occhi eran rimasti aperti e sereni, e pareva che cercassero ancora nel cielo i sogni fuggiti con l’anima.
Tullio lo baciò singhiozzando, e mormorando parole incomprensibili.
- Deve esser un parente; – mormorò uno dei confrati.
Poiché egli s’indugiava, e bisognava invece affrettarsi a caricare quegli avanzi sanguinosi per andare a seppellirli nel cimitero dei giustiziati, un birro si avvicinò a Tullio, e urtandolo in malo modo, gli disse:
- Ohè, amico, non vorrete certamente che facciamo i vostri comodi!... avrete agio di piangere a casa, vostra. Se c’è da piangere...
Tullio si alzò: fremeva d’ira e di dolore, ma un gesto, una parola imprudente potevano comprometterlo.
Si ritrasse e lasciò che i becchini gittassero quei corpi ancor tiepidi, l’uno su l’altro, sui carri, e li coprissero della ruvida tela. Quando questa lugubre e inumana cerimonia fu compiuta, e i carri si mossero, accompagnati da quattro birri, Tullio li seguì.
Lungo il tragitto, il sangue che scorreva dalle fessure del carro segnava il cammino.
Il cimitero dei giustiziati era dalla parte opposta della città, sul fiume Oreto, a pochi passi dal famoso ponte Ammiraglio, dove, trentotto anni dopo, Garibaldi avrebbe in una bell’alba di maggio vendicate quelle vittime. Non potendo per ragioni facili ad intendersi attraversare la città, i due carri percorsero la strada intorno alle mura, il che triplicava il cammino. Quella strada era allora affatto campestre; appena qualche casetta qua e là; poi orti e mura, e si poteva andar più spediti, e senza sospetto di incontri. 
Per far più presto, i birri montarono sui carri sedendo accanto ai cadaveri, senza provare il menomo ribrezzo; e allora, sferzati i cavalli, i carri si affrettarono. Tullio andò per le strade interne più brevi.
Quando giunse al cimitero, i carri avevano scaricato la sanguinosa soma nella fossa carnaia scavata fin dalla mattina, e se n’erano andati coi birri; nel piccolo cimitero che precedeva la chiesetta non v’erano che gli interratori, che ricoprivan la fossa, e il cappellano, che dritto sulla soglia della chiesa assisteva all’ultima cerimonia.
Ancora oggi quel piccolo cimitero, chiuso da alto muro, coi pochi cipressi vegghianti sulle nude fosse ora dimenticate, desta nell’animo un sentimento di pietà e di raccoglimento, e talvolta anche un brivido di superstizioso terrore. A un angolo, impegnata al muro vi è oggi una piccola piramide, di muratura; allora vi era invece una piramide macabra di teschi umani; teschi di giustiziati, separati empiamente dai corpi, ed esposti a pubblico ammonimento.
Per un cancello si entra nel recinto; dove allora né lapidi, né ricordi eran consentiti; i corpi dei disgraziati che cadevan sotto il rigore estremo della giustizia, vi eran sepolti senza onore di pianto e di cerimonia. Ma la pietà e la superstiziosa divozione del popolo non dimenticava quegli infelici, e largiva elemosine che non facevan mai mancare suffragio di preghiere e di messe. Credeva  e crede ancora il popolino che le anime dei giustiziati abbiano la virtù di rispondere alle preghiere dei devoti, che vanno a visitar le loro tombe, recitando alcune preghiere speciali e offrendo il loro obolo; e questa superstizione ha impedito che sul piccolo cimitero pesasse con l’onta anche  l’abbandono.
Ivi si eran seppelliti i ladri e gli assassini morti sulle forche o di mannaia; con quei nove per la prima volta vi si seppellivano i rei di cospirazione politica. I re di Borbone accomunavano i patriotti con la feccia degli uomini; li accomunavano negli ergastoli e nei cimiteri. Rubare e ammazzare il prossimo, e desiderare la libertà politica e vagheggiare un’idea di bellezza civile e morale, eran per quei re delitti uguali; forse anzi questi erano peggiori di quelli.
Tullio non potè avere l’ultima consolazione di veder seppelliti meno barbaramente i suoi compagni; ma entrò nella chiesetta, piccola e bianca, e stanco e abbattuto dal dolore, si lasciò cadere in ginocchio dinanzi a una sedia. Non c’era nessuno; dalle finestre scendeva una luce smorta, che illuminava foscamente un quadro, nel quale sopra un ampio piatto si vedeva la testa recisa e sanguinante del Battista.
Il Cappellano rientrò con passo lieve nella sacristia, senza guardare il solitario confrate, che pareva immerso nella preghiera. Ma Tullio non pregava: si domandava ora che cosa gli rimaneva a fare. Sperare in una ripresa più gagliarda e più fattiva della cospirazione, era una follia. Quel massacro di nove cittadini, senz’altra colpa che d’essere Carbonari, aveva diffuso nella città un senso di terrore e costretto alla fuga o alla circospezione anche i  più arditi. Per riprendere il lavoro segreto e preparare una nuova sollevazione, occorreva lasciar trascorrere qualche tempo, e illudere il Governo con una apparente quiete… Ma intanto?
Che cosa avrebbe egli fatto? Poteva aspettare questo tempo migliore nelle spelonche di S. Ciro, dormendo per terra, esposto alle intemperie, e con la minaccia sospesa sul capo? L’esilio? Sì: ecco quel che gli rimaneva. 

Luigi Natoli: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1820. Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1930. 
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