Fabrizio da prima era
rimasto un po’ sopra coverta, per godere lo spettacolo magnifico e terribile di
una tempesta. Questo era il suo primo viaggio per mare; per tre giorni aveva
viaggiato col mare tranquillo, sotto un cielo sereno, e aveva goduto la vista
varia e pittoresca della costa calabrese; ora la scena mutata non l’aveva allertato
meno. Quell’ampia distesa, che aveva mutato colore e aspetto, sotto il cielo
plumbeo, avevano una loro bellezza spaventevole. Quella nave, contro la quale i
marosi si scagliavano spumeggianti di collera; quella piccola nave, che
sperduta sull’immensità contrastava con la violenza della natura aveva non so
che di eroico, che accelerava il sangue nelle vene del giovane, non ancora
consapevole del delitto. Ma quando vide il bompresso strappato come un
fuscello, e i marinai rifugiarsi sotto coperta; quando per poco non si vide
predato dalle onde, dovette anche lui, trascinandosi, cercarvi uno scampo. Il
terrore dei marinai invase il suo cuore: per quanto coraggioso, per quanto
audace, l’idea di morire inghiottito dal mare, senza difesa, gli toglieva l’animo.
Ahimè, partire con la mente piena di fantasticherie, sognando avventure e
combattimenti, e finire così, in un istante, dentro un gorgo, a ventun anno!
Quale fine ingloriosa! La sua breve vita gli appariva come in un quadro
luminoso: la sua casa, sua madre, Rodrigo, don Anselmo sua vittima, gli amici,
la principessa di Belmonte, il marito di lei, donna Costanza... tutti rivedeva,
così come li aveva lasciati. Povera donna Costanza! Durante la cura della
ferita gli aveva scritto lettere di dolore e di gelosia, ma piene di premura
affettuosa. In Castello gli aveva mandato dolci e cianfrusaglie per la toletta:
ma quando egli andò a visitarla, per congedarsi, alla vigilia della partenza,
ella si disfece in lagrime e svenne. Ah tutto quel mondo che gli aveva aperto
le sue porte, e nel quale egli era entrato con la sua giovinezza impetuosa,
ecco che si chiudeva per sempre; da un minuto all’altro egli sprofonderebbe, né
alcun occhio pietoso conforterebbe l’ultimo suo sguardo alla luce. Questo
pensava nell’abbattimento del suo cuore, senza abbandonarsi però alla scomposta
disperazione dei marinari, quando, a un tratto sopra tutte le immagini gli
apparve nella memoria quella gentile e soave della bella incognita, sorridenti
gli occhi e la bocca, e così serena nell’aspetto e lieve negli atti, come egli
l’aveva per due volte veduta. E pareva che guardandolo ora in quella imminenza
della morte certa, gli infondesse un raggio di speranza. Egli dimenticò per
qualche minuto la tempesta, pieno di questa visione, come se quella fosse
l’immagine di una di quelle sante invocata dai marinai, anzi come una di esse,
che prendendo le sembianze dell’incognita, scendesse dal cielo a compiere il
miracolo.
Ma come se la tempesta
avesse aspettato di strappare alla tartana ogni strumento per dirigersi, dopo
la perdita del timone e della bussola il vento cominciò a deporre la sua
violenza, pur avventandosi a quando a quando con nuovi buffi, come un uomo che
andato in furore contro un altro, dopo aver dato sfogo alla sua passione,
percotendolo vada disarmandosi, ma non così presto, che ogni tanto la passione
non gli ribollisca a fiere parole e a minacce di nuove percosse.
Pure la ciurma non si
illudeva. Che poteva fare quel guscio disalberato, senza timone, in balia del
mare ancora violento e rabbioso? E tuttavia il guscio non affondava; pareva che
il mare si divertisse a sballottolarlo, come il gatto fa col topo: lo alzava
sulle creste bianche di spuma, lo lanciava nell’abisso che si apriva fra le
onde. E durò questo orribile supplizio fino a sera; quando il vento domato,
aperse le nubi a una furiosa pioggia, insino a quel punto trattenuta. Allora
anche le ondate andaronsi rabbonendo. Mugghiavano e continuavano a
sballottolarsi la tartana, ma senza più far temere di inghiottirla: come un
cane, che minacciato dalla frusta del padrone, contenga la voglia di assalire e
sbranare, ma ringhiando, le zanne pronte, gli occhi accesi, il dorso
rabbuffato, minacci di slanciarsi, ove il freno s’allenti.
I marinai cominciarono a
sperare, a scotersi, a incoraggiarsi; ora si guardavano stupiti e sgomenti a un
tempo; e guardavano Fabrizio. E pensando che egli non aveva gridato, né
invocato i santi, né si era abbandonato alla disperazione come essi, se ne maravigliavano.
Egli sorrideva col cuore pieno oramai di fiducia che non si sommergerebbero.
- Non naufragheremo! –
disse con voce sicura: – Dio ha misericordia di noi.
Ed egli aveva un aspetto
così lieto, che a quei poveretti infuse un
po’ della sua fiducia, e parve un santo, un uomo in grazia di Dio; per
cui merito Dio aveva compiuto il miracolo. Tuttavia trascorsero la notte in
grande angoscia, perché ogni tanto il mostro pareva si ridestasse.
L’alba apparve dietro
poche e tenui nubi che si libravano sull’orizzonte, imbiancando il cielo, che
agli occhi ancora smarriti dei marinai, apparve di un azzurro cupo ma terso e
scintillante di stelle.
Luigi Natoli: I mille e un duelli del bel Torralba. Un inedito di Natoli pubblicato per la prima ed unica volta a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 01 febbraio 1926.
Pubblicato per la prima volta in unico volume da I Buoni Cugini editori nel 2015.
Prezzo di copertina € 24,00 - pagine 470
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Nella foto: Illustrazione di Amorelli alla puntata del Giornale di Sicilia del 1926.
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