In quel viluppo sfolgorarono due occhi.
Lampo improvviso che si spense quasi subito.
Giovannello era rimasto immobile, sulla
soglia della grotta, guardando in quell’angolo con una curiosità che non era
senza commozione.
I suoi occhi, dopo un istante, si abituarono
all’ombra, e scorsero più precisamente una sembianza d’uomo, seduto per terra,
con le spalle appoggiate alla roccia, il cui corpo spariva sotto una pelle di
montone.
Egli non sapeva giudicare se quell’uomo,
che chiamavano il Romito, fosse vecchio.
Il suo volto era emaciato e nero, i suoi
capelli e la barba bianche; ma non aveva rughe, salvo una diritta, profonda, fra
le due sopraciglia, come solcata da un pensiero costante e tormentoso. Le sue
membra consunte non avevano le tracce della senilità.
Nella grotta si diffuse un silenzio alto
e solenne, come se qualche mistero vi si dovesse compiere. Il pastore s’era
ritirato verso l’ingresso; Giovannello rimaneva in piedi, in un atteggiamento
di riverenza; il romito teneva il capo chino sul petto, che gli si gonfiava
ritmicamente al respiro difficile.
Giovannello aspettava, non osando rompere
pel primo il silenzio. Volse lo sguardo in giro, per vedere la grotta.
Era un antro non molto profondo, dovuto
in tempi immemorabili a un giuoco della lava che scendendo lungo le coste di
una roccia, da due lati, vi aveva formato come due pilastroni, che a poco a
poco, per altre lave, si erano esteriormente allargati, lasciando fra loro un
gran vano. Nuove eruzioni vi si erano sovrapposte, ed avevan formato una solida
e alta roccia sui due pilastroni. Era così rimasta aperta e difesa quella
spelonca, sotto la lava grigia, ferrigna, sulla quale le acque piovane qua e là
avevano disteso muffe giallastre e striature rossicce.
In un angolo v’erano due sassi, posti in
modo da formare un focolare: la cenere bianchiccia che v’era accumulata, il
fumo che anneriva le due facce interne dei sassi e la roccia indicavano che
l’uso ne era frequente.
Accanto ai sassi era una caldaia annerita
dal fumo; dagli orli si riconosceva ch’era di rame. Da un chiodo infisso tra le
fessure della roccia pendeva un mazzo di fascelle vuote.
Si sentiva un odore indistinto di arsiccio
e di latte inacidito.
Dalla bocca della grotta veduta fra le
nere pareti la vallata verdeggiante abbagliava.
Il pastore s’era messo a sedere fuori,
sopra un sasso, con quell’apatia che la vita fra le rocce aspre e solitarie
aveva impresso al suo volto e al suo cuore.
Il romito finalmente levò il capo, guardò
il giovane, e con una voce lieve, ma con un tono che lo fece rimescolare, gli
disse:
- Siedi accanto a me…
Il giovane non gli vide muover le labbra;
la voce pareva uscisse dalle profondità della terra: era la voce di un altro
mondo. Egli ubbidì con una specie di religiosa commozione.
Così, forse, nei tempi preistorici, gli
uomini si chinavano sulle tombe per ascoltare le voci dei trapassati, ai quali
chiedevano consigli, auguri, benedizioni.
Dopo un minuto di silenzio, il romito
disse lentamente e quasi scandendo le parole:
- Figlio di Andrea Chiaramonte, t’ho
aspettato lunghi anni… eccoti qui, dunque. Dio sia benedetto!... Siedi e
ascolta....
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