Le cose del regno
prendevano una piega che non piaceva punto a Giovan Luca Squarcialupo; e per
conseguenza non piaceva a Tristano che si era lasciato attirare nell’orbita
delle idee di Giovan Luca, sia per l’amicizia, sia perché in quelle idee
trovava qualche cosa di nuovo; una concezione più larga della vita dello Stato;
una espressione più vigorosa del sentimento di indipendenza.
Da un secolo
l’indipendenza del regno era una parola vuota di senso: i baroni, che avevano
annientato l’autorità del re, durante gli ultimi anni della dinastia aragonese,
avevano combattuto per la propria indipendenza, non per quella del regno; anzi
avevano dato questo a un re straniero e lontano. Ora che si offriva il modo di
recuperare la piena autonomia di fatto e di diritto, di liberarsi dello
straniero, si conducevano in modo incerto e dannoso.
Queste cose diceva
Giovan Luca, e Tristano le riconosceva giuste; tanto più che gli avvenimenti di
quei giorni davano ragione a loro. Infatti si era saputo che don Ugo aveva
domandato aiuti d’arme al vicerè e gli spagnoli si fossero occupati questi li
avesse conceduti, le milizie spagnole, stando il vicerè a Messina, potevano
entrare in Sicilia senza esser molestate. Se invece si fosse buttato a mare il
vicerè e gli spagnoli, e si avessero occupati i castelli, i pericoli
dell’invasione sarebbero stati più scarsi e meno possibili.
Ma la nobiltà non si
allontanava dalla via tracciatasi: difendere i diritti del regno, sì, disfarsi
di don Ugo, sì: ma senza mutamenti, e con le vie legali. Intanto il re Carlo
confermava don Ugo come Vicerè, per un altro triennio; cosicchè i baroni che
dominavano il Parlamento e si studiavano di non apparire ribelli, per forza
delle cose, ostinandosi a non riconoscere don Ugo, diventavano proprio tali.
Giovan Luca avrebbe
voluto che di queste condizioni di fatto si approfittasse per proclamare con un
parlamento solenne decaduta la corona di Spagna, dal trono di Sicilia. E ne
avea il diritto. Chi aveva dato la corona di Sicilia a Pietro d’Aragona? Il
Parlamento. Chi, estinta quella dinastia, l’aveva data a Ferdinando il Giusto,
proavo di Carlo? Nessuno, né per diritto di elezione egli era divenuto re di
Sicilia: ma con la frode e per la balordaggine dei baroni, più intenti a
prender terre, che a difendere l’indipendenza del regno.
I successori di
Ferdinando erano dunque illegittimamente re di Sicilia. E Carlo anch’esso.
Questo avrebbe dovuto proclamare il Parlamento, invece di mandare Antonello Lo
Campo a Bruxelles! E non sarebbe mancato il concorso del popolo. Con quali
onori infatti era stato ricevuto il conte di Golisano a Catania? Tutto il
popolo e il Senato gli erano andati incontro; e il Senato gli aveva offerto lo
spettacolo di una mostra di balestrieri bene armati e ordinati. Bisognava esser
ciechi, diceva Giovan Luca, ciechi o pusilli, per non vedere il partito che si
poteva trarre da queste manifestazioni. Ma il Parlamento non osava. Peggio: vi
serpeggiavano piccole gelosia per la popolarità del conte di Golisano; tanto
che dovendosi eleggere un presidente del regno (ufficio che si soleva dire,
temporaneamente, nell’assenza del vicerè) e avendo qualcuno ventilato il nome
del conte vi furono delle opposizioni larvate: sì che il conte si rifiutò.
E il
Parlamento scelse allora due residenti, Matteo Santapau marchese di Licodia, e
Simone Ventimiglia, marchese di Geraci; il programma dei quali si racchiudeva
in due parole: pace e rettitudine.
Luigi Natoli: Squarcialupo
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