Agata correva per una strada
sconosciuta; di qua le mura e i bastioni, di là qualche strada suburbana, fra
poche case, o strade solitarie, buie, anzi nere, che si allungavano fra muri e
si perdevano nella campagna. Ella andava senza saper dove, spinta da un senso
di spavento e da un desiderio: don Corrado! che cosa era accaduto a don
Corrado? A poco a poco rallentò il passo, sentiva dei dolori strani nella
persona, che la impacciavano; oltrepassò Porta Maqueda, attraverso la quale
vide prolungarsi la Strada Nuova, per metà sprofondata nell’ombra, per metà
illuminata dalla luna. Dinnanzi a lei era un labirinto di strade, che la
penombra rendeva simili; qual era quella che conduceva al fondo dei Calvello?
Tutto era un deserto: lei, sola,
perduta in quella solitudine tenebrosa. Aveva dei fremiti impercettibili di
paura. Le parve udire un rumore di passi lontani. Se fosse della buona
gente!... Aspettò trepidante; dal fondo d’una strada campestre vide al chiarore
della luna tre uomini armati che venivano verso la Porta; parlavano. A mano a
mano che si avvicinavano le voci si facevan più chiare, ma non si intendeva
quello che dicevano. Ma subitamente il suono di una voce la fece trasalire, e
un improvviso spavento la invase: era quella stessa voce che, quando la afferrarono
e la imbavagliarono, aveva gridato: “Portatela via”. Quella voce le era rimasta
nell’orecchio: ora la riudiva. Eran dunque quei manigoldi? e se la
riconoscevano?
Un terrore pazzo si impadronì di lei; tremando, si diede a correre verso la città, entrò per la Porta Maqueda, si cacciò nelle ombre della Strada Nuova, e al primo vicolo che le si offerse, come un mezzo per sottrarsi, svoltò sempre correndo, come se avesse avuto alle calcagna quei tre uomini.
Non conosceva quella strada: per il timore di esser veduta e riconosciuta svoltava sempre pei vicoli bui e silenziosi che le si aprivano sui passi; andando alla ventura, persuasa di far perdere le sue tracce agli invisibili, supposti persecutori. Errò in tal modo per circa mezz’ora: e non sapeva di avvicinarsi al cuore della città. In quello andar di qua e di là, si ritrovò nella Strada Nuova, presso il quartiere della Conceria: più in giù erano i Quattro Canti. Se avesse seguito l’asse della Strada Nuova, giunta al famoso crocicchio avrebbe potuto orientarsi; preferì invece inoltrarsi nei vicoli che le si schiudevano dinanzi: vicoli profondi e tenebrosi, e pieni di sorprese, di paure e di vergogne.
Girò qua e là. Nel vano delle porte, sui gradini delle chiese, sui banchi sporgenti dalle botteghe aveva veduto corpi umani inerti nel sopore del sonno: e il silenzio rotto dal russare discorde di centinaia di gole. Tutta una popolazione miserabile, senza tetto, senza pane, sotto il padiglione immenso e gratuito del cielo, si abbandonava al sonno non già per ristorare le membra stanche, ma per trovare una tregua alle angustie della miseria.
Uomini, che avrebbero potuto essere forti e utili strumenti d’industrie e di ricchezza, giacevano nell’inerzia del sonno, continuazione dell’inerzia della vita trascorrente nell’ozio forzato; donne, che avrebbero potuto esser belle e gioconde, giacevano senza verecondia, seminude, su pe’ gradini, col seno scoverto, vizzo e vuoto, sul quale s’era addormentato un bambino, venuto al mondo non si sa come, nell’ombra, da un momento di libidine bestiale; fanciulli e fanciulle, dalle menti e dai cuori dischiusi prima del tempo ai misteri del sesso, confusi dal sonno in strani aggrovigliamenti; tutto uno spettacolo di miseria, di vergogne, di tristezza, che la notte avvolgeva nelle sue ombre, d’estate o d’inverno: tutta una folla che non si sapeva dove stesse di giorno, donde sbucasse la notte: che viveva dei rimasugli trovati nelle immondezze, contese ai cani, o di piccoli latronecci; pronta a seguire piangendo le processioni e a brandire il coltello; alla preghiera e all’assassinio; scalza, macilenta, sudicia, feroce, selvaggia, libera, errabonda, senza patria: amalgama di tutte le genti, che la fame scacciava dai piccoli borghi feudali miserabili, dalle terre demaniali piú miserabili ancora; e che la capitale attirava con un miraggio di ricchezza, che balenava soltanto nei cortei nobileschi e del clero, con l’ostentazione del fasto e del superfluo. Folla innominata e innominabile, che aveva per pratica della vita il vizio, che viveva nell’ombra, senza ieri, senza oggi, senza domani, senza idee, senza passioni; perseguitata, respinta, abbandonata a sé stessa, e della quale i bandi viceregi si ricordavano soltanto quando dovevano minacciar pene ed esilii, per soddisfazione dei signori.
Con un senso di sgomento e di angoscia, Agata passava attraverso mostruosi gruppi che il sonno confondeva; e guardava con stupore e paura. Ma talvolta delle tenebre di un vicolo o di un angolo perduto, giungevano al suo orecchio strani sussurri e mormorii affannosi. Ovvero vedeva uscire un fantasma di donna, e dileguare per la via...
Un terrore pazzo si impadronì di lei; tremando, si diede a correre verso la città, entrò per la Porta Maqueda, si cacciò nelle ombre della Strada Nuova, e al primo vicolo che le si offerse, come un mezzo per sottrarsi, svoltò sempre correndo, come se avesse avuto alle calcagna quei tre uomini.
Non conosceva quella strada: per il timore di esser veduta e riconosciuta svoltava sempre pei vicoli bui e silenziosi che le si aprivano sui passi; andando alla ventura, persuasa di far perdere le sue tracce agli invisibili, supposti persecutori. Errò in tal modo per circa mezz’ora: e non sapeva di avvicinarsi al cuore della città. In quello andar di qua e di là, si ritrovò nella Strada Nuova, presso il quartiere della Conceria: più in giù erano i Quattro Canti. Se avesse seguito l’asse della Strada Nuova, giunta al famoso crocicchio avrebbe potuto orientarsi; preferì invece inoltrarsi nei vicoli che le si schiudevano dinanzi: vicoli profondi e tenebrosi, e pieni di sorprese, di paure e di vergogne.
Girò qua e là. Nel vano delle porte, sui gradini delle chiese, sui banchi sporgenti dalle botteghe aveva veduto corpi umani inerti nel sopore del sonno: e il silenzio rotto dal russare discorde di centinaia di gole. Tutta una popolazione miserabile, senza tetto, senza pane, sotto il padiglione immenso e gratuito del cielo, si abbandonava al sonno non già per ristorare le membra stanche, ma per trovare una tregua alle angustie della miseria.
Uomini, che avrebbero potuto essere forti e utili strumenti d’industrie e di ricchezza, giacevano nell’inerzia del sonno, continuazione dell’inerzia della vita trascorrente nell’ozio forzato; donne, che avrebbero potuto esser belle e gioconde, giacevano senza verecondia, seminude, su pe’ gradini, col seno scoverto, vizzo e vuoto, sul quale s’era addormentato un bambino, venuto al mondo non si sa come, nell’ombra, da un momento di libidine bestiale; fanciulli e fanciulle, dalle menti e dai cuori dischiusi prima del tempo ai misteri del sesso, confusi dal sonno in strani aggrovigliamenti; tutto uno spettacolo di miseria, di vergogne, di tristezza, che la notte avvolgeva nelle sue ombre, d’estate o d’inverno: tutta una folla che non si sapeva dove stesse di giorno, donde sbucasse la notte: che viveva dei rimasugli trovati nelle immondezze, contese ai cani, o di piccoli latronecci; pronta a seguire piangendo le processioni e a brandire il coltello; alla preghiera e all’assassinio; scalza, macilenta, sudicia, feroce, selvaggia, libera, errabonda, senza patria: amalgama di tutte le genti, che la fame scacciava dai piccoli borghi feudali miserabili, dalle terre demaniali piú miserabili ancora; e che la capitale attirava con un miraggio di ricchezza, che balenava soltanto nei cortei nobileschi e del clero, con l’ostentazione del fasto e del superfluo. Folla innominata e innominabile, che aveva per pratica della vita il vizio, che viveva nell’ombra, senza ieri, senza oggi, senza domani, senza idee, senza passioni; perseguitata, respinta, abbandonata a sé stessa, e della quale i bandi viceregi si ricordavano soltanto quando dovevano minacciar pene ed esilii, per soddisfazione dei signori.
Con un senso di sgomento e di angoscia, Agata passava attraverso mostruosi gruppi che il sonno confondeva; e guardava con stupore e paura. Ma talvolta delle tenebre di un vicolo o di un angolo perduto, giungevano al suo orecchio strani sussurri e mormorii affannosi. Ovvero vedeva uscire un fantasma di donna, e dileguare per la via...
Ora non correva più; andava guardinga,
cercando di indovinare dove si trovasse, di orientarsi in quel labirinto di
straduccole, in cui s’era quasi smarrita. Tentava ricondursi in un punto donde
le fosse facile trovar la via giusta: ma per andar dove? Tornare al fondo dei
Calvello? il suo cuore l’avrebbe voluto, ma si spaventava, e lo spavento ne
l’allontanava; a casa? e come? Pensava a sé e quel che le era accaduto. Quei
dolori nuovi che ella sentiva nelle ossa e ai lombi l’avevano richiamata alla
terribile realtà che l’aveva colpita. L’infamia subìta le appariva interamente
agli occhi della mente; il mistero della vita le si era squarciato
improvvisamente, orribilmente, empiendola di un senso di disgusto, di orrore,
di vergogna. Ahimè! ella non era più dunque quella di prima!... Ella era stata
contaminata; qualche cosa era passata sopra di lei, e la traccia era
incancellabile. Una ferita era stata aperta, e non si sarebbe mai più richiusa.
Qualche cosa era stata squarciata nell’anima sua e nessuno, neppure Iddio
avrebbe potuto rifarla. Ella sapeva. E non l’amore, non la gioia della
dedizione intera che purifica e circonda di sogni e di speranze la poesia
dell’amore fino nell’attimo in cui si tramuta in senso; non questo che rende
divino il passaggio dalla incoscienza giovenile allo aprirsi giocoso della
fecondità consapevole, aveva presieduto alla sua trasformazione; ma il furto,
ma la violenza, ma l’onta bestiale. Ella si sentiva vilipesa, e le pareva che
il suo volto, i suoi occhi, la sua voce, il suo passo, tutto rivelasse la sua
vergogna.
La casa? andare a casa? come? come sarebbe entrata nella sua camera? come si sarebbe presentata alla madre? come avrebbe guardato don Corrado? Oh, don Corrado! ed era per lui, soltanto per lui che aveva subìto quell’oltraggio; era per lui che era stata immolata!...
Le sue gambe vacillavano, e la sua testa scoppiava, e intanto andava, sospinta da un bisogno istintivo di andar verso la casa, verso quella casa dove pur le ripugnava di entrare.
La casa? andare a casa? come? come sarebbe entrata nella sua camera? come si sarebbe presentata alla madre? come avrebbe guardato don Corrado? Oh, don Corrado! ed era per lui, soltanto per lui che aveva subìto quell’oltraggio; era per lui che era stata immolata!...
Le sue gambe vacillavano, e la sua testa scoppiava, e intanto andava, sospinta da un bisogno istintivo di andar verso la casa, verso quella casa dove pur le ripugnava di entrare.
Luigi Natoli: CALVELLO IL BASTARDO – Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo di fine Settecento e inizi Ottocento, quando la Rivoluzione Francese porta in tutta Europa le prime idee di libertà dei popoli e nascono le prime Logge. Il protagonista Corrado Calvello è affiancato dal patriota e giureconsulto Francesco Paolo Di Blasi.
L’opera è la fedele riproduzione del romanzo originale pubblicato dalla casa editrice La Gutemberg nel 1913.
Pagine 880 – Prezzo di copertina € 25,00
Tutti
i volumi sono disponibili al sito ibuonicuginieditori.it
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a Palermo in libreria presso:
La
Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133), Nuova Ipsa (Via dei Leoni 71), Libreria
La Vardera (Via N. Turrisi n. 15), Libreria Modusvivendi (Via Q. Sella n. 15),
Enoteca Letteraria Prospero (Via Marche 8)
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