lunedì 22 febbraio 2021

Luigi Natoli: Il matrimonio tra Rosalia e don Agostino. Tratto da: La vecchia dell'aceto.

Don Agostino Caracciolo, dal don e dal vestiario si riconosceva che era del ceto di quei piccoli impiegati, copisti o portieri negli uffici, scrivanelli o faccendieri che facevano da sensali presso i “paglietti”, cioè procuratori e avvocati di scarto, e qualche volta si adattavano anche a insegnare la Santa Croce ai ragazzi del popolo, a un grano al giorno. Era un uomo sui trent’anni, bruno di carnagione, di capelli nero, gli occhi impiccioliti dall’abitudine di tenerli socchiusi, come per raccogliere l’acutezza dello sguardo; una riga profonda tra le due sopracciglia corrugate; una espressione di sprezzo per gli altri e di coscienza del proprio valore; l’aria dell’uomo che sa il fatto suo, che “si fida”, che non indietreggia dinanzi ad un coltello, e sa impugnarne uno con tutte le regole dell’arte. Nel tono del saluto si sentiva l’abitudine di “masticare le parole”; nella camminatura, l’uomo che sa di imporre rispetto. Don Agostino Caracciolo non esercitava una professione fissa: si adattava a quelle che gli capitavano nelle mani, tanto per aver l’apparenza di vivere del suo lavoro. Da alcuni anni faceva il “razionale dei bottegai”; era, cioè, il contabile o ragioniere, che teneva i conti dei fruttaiuoli. 
Come “razionale dei bottegai” egli andava ogni mattina allo “scaro”, cioè al gran mercato all’aperto, dove dalle campagne e dai paesi circostanti i produttori portavano la frutta e gli ortaggi; vi si stabiliva il prezzo, in una specie di gara, col quale si cedevano ai rivenditori sia ambulanti che di bottega; i quali però non potevano rivendere che secondo la meta o calmiere. Questo “scaro” si teneva in uno spazio di terreno fra il bastione di porta San Giorgio e il Castello; don Agostino vi si recava passando per la via Grande; e un giorno vide uscire dalla vecchia porta di casa Rosalia con sua madre. Gli piacque, e da quel giorno passò e ripassò sperando di rivedere la fanciulla: e la vide dietro le vetrate del balconcino. Ella notò quel giovane ben vestito, con quell’aria di valentia, che pareva un “galantuomo”; ma non vi badò tanto; però la curiosità la spingeva a guardare sulla strada, per vedere se quel giovane ritornasse. Ma qualche giorno dopo don Agostino tenne la posta a Michela, sulla via; le si avvicinò cortesemente, le disse il suo nome e le sue intenzioni di sposare la fanciulla. A Michela non spiacque; volle tempo per informarsi. Se non era per questo! Egli le indicò le persone alle quali poteva domandare di lui; tutte persone degne, tra cui anche dei signori. Le informazioni furono ottime. Don Agostino? Oh! un uomo serio, rispettato, guadagnava bene, possedeva una casa, poteva mantenere la moglie. I costumi? Non c’era che dire. Allora, Michela, contenta, ne parlò a Rosalia: era un buon partito, e non bisognava lasciarselo sfuggire. Ma la fanciulla non partecipò all’entusiasmo materno. Sì, era un bel giovane, l’aveva già veduto; ma sposarlo poi... Non confessò alla madre che ella sognava ben altre nozze, e che quel matrimonio pareva umiliante per una che poteva essere davvero figlia di principi; ma disse che a maritarsi c’era tempo, che non aveva fretta, che voleva farsi una buona dote; e cento altre cose, che la madre abbatteva. Che cosa e chi voleva aspettare? A diciotto anni le ragazze erano non solo mogli, ma anche madri di almeno un marmocchio; voleva lasciar passare la giovinezza come una donna di cui nessuno ha voglia? Lei così bella? Voleva sgobbarsi ancora a perdere la vista sui ricami! Quando sarebbe gobba e cieca, chi la domanderebbe più? Don Agostino, lei se ne era informata, era un “galantuomo”, guardava bene, la farebbe vivere come una signora; che andava cercando di più? E poi credeva che sua madre fosse eterna? La vita è nelle mani di Dio: dall’oggi al domani si chiudono gli occhi per sempre.
Batti oggi, batti domani, Rosalia si sottomise alla volontà della madre, senza entusiasmo e senza avversione; del resto i matrimoni si facevano sempre così: i genitori li concludevano, i figli obbedivano e accettavano. La sera che don Agostino fu ammesso in casa a dare ufficialmente l’anello alla promessa sposa, questo parve a Rosalia così bello, che la conciliò subito col futuro marito: quella sera erano intervenuti i parenti di lui, tutta gente che portava il capello, e qualcuno aveva anche lo spadino; e le donne avevano il manto di seta; insomma persone civili. Le nozze si celebrarono di lì ad un anno; e la festa si tenne nella casa dello sposo. Fu una delusione per Rosalia, cresciuta nella strada, dietro il Coro dell’Olivella e poi nelle via Grande del Castello, quando si recò nel Cortigliazzo, si sentì stringere il cuore. Quel vicolo cieco, largo, lungo, intricato, con pianterreni che parevano tane, con qualche casa a un primo piano, vecchia e peggiore di quei tuguri, le fece calare un’ombra sul volto. Era uno spettacolo di miseria e di luridume: muri screpolati, finestre senza vetri, con le intelaiature infradicite, sugli aggetti di lavagna o di legno qualche vecchia pignata convertita in grasta, con un po’ di verde quasi timido; due o tre case avevano una scaletta esterna, lungo il muro dieci o dodici scalini di legno o di pietra, che conducevano a una specie di veroncello o ballatoio col parapetto di mattoni, dove si apriva l’uscio, accanto al quale era una finestra per dar lume alla stanza. Una di queste casette era quella di don Agostino; alla quale dava un po’ di vaghezza una vite, che salendo sul fianco di quel veroncello, formava una piccola pergola sul pianerottolo e sull’uscio; ed il suo verde e quello di due graste di garofani poste sul davanzale della finestra ravvivavano la povera facciata; la vecchiaia graziosa della quale don Agostino aveva cercato di coprire facendola imbiancare, e facendo tingere di azzurro oltremarino il passamano di legno della scaletta. Ma dentro, la casa, aveva migliore aspetto: erano tre stanze, dipinte una color di rosa, l’altra cilestre, la terza gialletta, con lo zoccolo e un piccolo fregio rossiccio. I mobili erano antichi, ma in buono stato; e non mancavano quelli necessari. V’era nell’interno un’aria di agiatezza, che appariva maggiore dopo l’impressione di povertà e di tristezza che si sentiva alla vista del Cortigliazzo.
I primi mesi, i sensi svegliati e appagati fecero trovare a Rosalia bello il suo nuovo stato: don Agostino, sebbene non espansivo, era affettuoso, la conduceva a spasso, dai parenti, alle feste pubbliche. Era però un po’ geloso e autoritario, e non tollerava che i suoi ordini si discutessero: la prima volta che Rosalia si rischiò di rimbeccare, n’ebbe un ceffone, perché imparasse a rispettare il marito. Fu il primo colpo di piccone nell’edificio artificioso; il primo solco nel fosso, che doveva separarne gli animi…
Don Agostino cominciò a riprendere le sue abitudini: usciva la sera, la chiudeva in casa e rientrava a notte avanzata: qualche volta faceva venire amici, ma Rosalia non doveva assistere alle conversazioni: il suo compito era di servire il vino, silenziosamente, e ritirarsi nella camera. Se ne doleva, rammaricandosi di aver ceduto, di averlo sposato; che in fondo poteva anche trovar di meglio. Don Agostino sogghignava:
- Già! si sa che sei figlia di un principe! Di quale vuoi essere figlia? di Paternò? di Butera? di Cattolica? Tuo padre era un guarda m... del Senato, e tua madre era una cassariota, che per non allattarti t’ha portato allo “Spirito Santo”!... Va là!
Ma non rimanevano a questo punto, le parole diventavano più acerbe; don Agostino ricorreva alle mani, Rosalia si difendeva con la lingua formidabile. Qualche volta don Agostino, il domani di una di queste baruffe, per ammansarla le regalava qualche vestito. – “Cotone!” – o “Lanetta!” – diceva lei con disprezzo; – “almeno fosse seta!”
Eppure per quella povera gente del vicinato, che viveva di fave lesse, o di minestre d’erbe selvatiche, Rosalia era una signora che aveva ogni ben di Dio, per esser felice, e se v’eran liti, voleva dire che, nè il marito nè la moglie sapevano godersi tanto bene. Sulle prime, qualche comare accorsa alle grida, aveva cercato di dar buoni consigli, che non bisogna rintuzzare coi mariti, che s’ha da fare la loro volontà; guai se prendono a sdegno la casa! Ella si impermalì; rispose secca secca di non aver bisogno di consigli; e che badasse ognuno agli imbrogli della sua casa. Per poco non ne nacque un pettegolezzo con le vicine: ognuna, colle mani sui fianchi, voleva sapere di che imbrogli parlava. Povertà ma onestà! E compari in casa non ne bazzicavano!...
Da allora Rosalia si inimicò il vicinato, e diventò il soggetto di tutte le malevolenze; essa non se ne curava: affettava un gran disprezzo, e quando usciva, attraversava il Cortigliazzo senza guardare nessuno. 

Luigi Natoli: La vecchia dell'aceto. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1700. La storia di Giovanna Bonanno, l’avvelenatrice passata alla storia come La vecchia dell’aceto.
L’opera è costruita e trascritta dal romanzo originale, pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1927.
Copertina di Niccolò Pizzorno
Pagine 562 – Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito ibuonicuginieditori.it (spedizioni a mezzo corriere in tutta Italia. Contattaci alla mail ibuonicugini@libero.it o al whatsapp 3894697296)
On line su Amazon Prime e Ibs
In libreria presso: La Feltrinelli libri e musica (Via Cavour 133), Nuova Ipsa (Via dei Leoni 71), Libreria La Vardera (Via N. Turrisi n. 15), Libreria Modusvivendi (Via Q. Sella n. 15), Enoteca Letteraria Prospero (Via Marche 8)

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