Entrando nella stanza quasi buia dove era il presepe, gli
occhi di tutti furono colpiti da un quadrato di luce abbagliante, e non si
vedeva da che fosse prodotta. Il presepe, debitamente e accuratamente
illuminato, era costruito nel vano di una porta che metteva in uno stanzino, in
modo che la porta stessa facesse da bocca alla scena. Era profondo da cinque a
sei palmi quadrati, ma pareva infinitamente più grande. Rappresentava come nei
grandi presepi, un insieme di colli, divisi da valli, con delle diramazioni
avanzate che s’aprivano in grotta, fatti di sughero e di creta. Un fiume
percorreva il mezzo della scena, fatto di vetri, e sormontato da un ponte. In
fondo era dipinta una scena, in modo da chiudere il presepe; vi era effigiata
Betlemme, in un orizzonte luminoso, specchiantesi in un lago. La grotta
principale era occupata dalla Natività. Stava dentro la mangiatoia il Bambino
Gesù, di cera, con le manine benedicenti, circondato da raggi, che eran di
vetro: l’asino e il bue dietro, la Madonna in ginocchio orante, san Giuseppe
appoggiato a un sasso, col bastone fiorito in mano, pareva indifferente.
Dinanzi vi erano i pastori, inginocchiati, quali offrenti caci e ricotte, quali
agnelli, in un canto il “ciaramellaro” in atto di togliersi il berretto,
dall’altro il “pifferaio” e il sonatore di sistro prostrati. E poi altri
pastori, che si affrettavano verso la grotta, in cima alla quale degli angeli
volavano tenuti da fil di ferro, con la scritta: “Gloria in excelsis Deo et in
terra pax hominibus bonae voluntatis”. E v’era sopra una rupe lo “spaventato”
dal prodigio, sopra un’altra il “dormente”; di qua il “legnaiolo” col suo
fascio di legna, di là il “torraro” diritto sulla torre; e poi il “boaro” che
lanciava sassi ai buoi, l’ortolano che guidava l’asino carico di cavolfiori, la
“lavandaia” col fagotto sul capo, la portatrice di colombi in un canestro e
perfino il “cacciatore” che armato anacronisticamente di uno schioppo, tirava
fucilate a un uccello, che il cane inseguiva.
Nell’altra grotta posta più in alto, dei pastori
dimenavano con un mattarello il latte in una caldaia, sul fuoco, o fabbricavano
caci e ricotte, un altro scendeva per la china portando due fiscelle, sotto un
pagliaio, in basso, un altro sorvegliava le greggi. E pecore e capre e mucche
erano sparsi di qua e di là; e case e torri su pei colli; e fichi d’India e
alberi in ogni fenditura di sugheri; e case e fichi d’India e pastori lontano,
sul ponte, alle sponde del fiume, popolavano la scena, con un supremo disprezzo
per la cronologia, l’archeologia, i costumi, i luoghi. I pastori erano vestiti
come quelli dell’ultimo seicento: una giubba aderente alla vita e cadente a
mezza coscia, brache, e borzacchini; in
capo un berretto, e spesso, su le spalle un mantello di quei che in Sicilia si
chiamano “scapulare”; le donne avevano la mantellina chiara; il cacciatore un
cappello di paglia. Ma che importava? Lo spettacolo non era meno bello: e don
Popò ne era così pieno, che manifestò la sua allegria intonando una canzonetta
d’occasione, e accompagnandola col verso della ciaramella. I ragazzi per far
chiasso l’imitarono; ed anche, eccitati, Nenè e Leopoldo e le donne.
Carlotta e Giovanni no. S’erano trovati accanto, come due
spiriti dolenti in quella festa dell’intimità familiare, e sospinti dallo
stesso pensiero, dallo stesso sentimento, si guardavano con un sorriso
doloroso, estranei all’allegria che li circondava....
Luigi Natoli: I morti tornano...
Pagine 584 - Prezzo di copertina € 22,00 - Sconto 15%
www.ibuonicuginieditori.it
Nessun commento:
Posta un commento