La vecchia se ne andò trascinandosi
sulle gambe. Il giovane cavaliere Giovanni Ventimiglia non avrebbe riconosciuto
in quella vecchia più rugosa, più livida, più gozzuta, quella comare Giovanna
che undici anni prima lo aveva accompagnato al palazzo di donna Elisabetta: né
Giovanna avrebbe riconosciuto il figlio di Genoveffa Larina nel giovane
cavaliere che comperava delle polverine nell’aromateria di don Saverio La
Monica. Questi undici anni erano trascorsi cancellando ogni traccia del
passato. Dopo le fiere nerbate ricevute dai servi di don Gastone, Giovanna paventando
di essere pedinata, scoperta e nuovamente arrestata aveva creduto necessario e
urgente mutare quartiere e nascondersi. Aveva trovato una stamberga in un
vicolo dietro la chiesa del Noviziato, nel quartiere del Capo. Era un vicolo
dei più miserabili e sudici della città, che da una parte aveva la muraglia,
dall’altra poche e povere case, delle quali qualcuna soltanto s’innalzava a un
primo piano, con un balconcino di legno infradicito dalle piogge. V’era sempre
del fango per terra, d’inverno per le piogge, in tutte le stagioni per le acque
sporche rovesciatevi dalle case. La stamberga di Giovanna era a metà del
vicolo; vi si scendeva per uno scalino lubrico di fanghiglia: ella vi accomodò
le misere masserizie e passò il primo giorno in casa, per le ammaccature
ricevute, che le pareva di avere le ossa rotte. A una vecchia sua vicina disse
di chiamarsi Vanna; quella, un po’ sorda, intese Anna; la chiamò za’ Anna, e
così ne riferì il nome alle altre comari; nel vicinato, la chiamarono za’ Anna:
essa non rettificò, trovando che la trasformazione del suo nome la aiutava a
far perdere le sue tracce. Così Giovanna Bonanno divenne la za’ Anna del
Noviziato.
Ella cominciò a uscire per domandare
la limosina; ma spesso andava fuori porta d’Ossuna e ne ritornava col sacchetto
pieno di erbe. Sospettosa com’era si chiudeva in casa, e non bazzicava nessuno;
e questa sua vita e quelle erbe cominciarono a eccitare intorno e lei la
fantasia dei vicini: si cominciò a supporre che fosse una fattucchiera, che
facesse malìe e sortilegi; la supposizione divenne certezza; e questa fu la
seconda trasformazione. L’essere creduta maliarda la circondò se non di
rispetto, di paura e la liberò dalle beffe e dai tiri dei monelli, eccitati
dalla sua bruttezza; le madri, temendo che la za’ Anna per vendicarsene,
chiamasse in suo soccorso le “donne di fuori” queste donne misteriose e
spaventevoli, peggio dei diavoli, le quali potevano “cambiare” i figli, li
ammonirono, li castigarono, li imbottirono di paure; così che la za’ Anna fu
lasciata tranquilla; ma le madri non mancavano la notte di metter fuori la
scopa, rimedio infallibile per tener lontana la “donna di fuori”. Superstizioni
e pratiche comuni, che le donnicciuole conoscevano senza essere fattucchiere,
ma che nella opinione del popolino confermavano questa fama nella za’ Anna. E
ad alimentarla concorreva ancora la vita chiusa e solitaria che ella faceva, in
quella stamberga nera, tetra, squallida, dove la sera attraverso la porta
socchiusa, spesso si vedeva lei dinanzi al fornello su cui bolliva una pentola,
che pareva misteriosa; e il suo volto, ai mobili riflessi della fiamma, ora più
ora meno vivace, prendeva espressioni strane e paurose.
Così erano passati undici anni,
durante i quali Anna Bonanno era sempre più scesa in basso: come una che era
stata fin dalla nascita una pezzente: vivendo di quel che raccattava andando
tutti i giorni per le strade o alla porta delle chiese del suo quartiere o
fuori la porta, negli orti presso S. Francesco di Paola o nei campi lasciati a
pascolo. I suoi capelli eran diventati più bianchi, più sparuti; ed ella li
raccoglieva in un piccolo mazzocchio sul capo: il suo volto era più grinzoso,
la bocca più sdentata; l’aspetto più orrido e ripugnante; soltanto gli occhi
piccoli, neri, serbavano qualche cosa dell’antica vivacità, e, talvolta, si
accendevano di una improvvisa fiamma, come quando da una brace coperta di
cenere, per uno sterpo secco o una foglia si sprigiona una vampata, che
rapidamente lingueggia e si spegne.
Due sere dopo, Giovanna Bonanno se ne
stava seduta sul suo giaciglio, con le mani intrecciate sulle ginocchia,
pensando. La lucerna di terracotta illuminava il suo volto di una tinta
rossastra e ne aumentava l’orrore. Aveva finito di mangiare alcuni tozzi di
pane immollati in un po’ d’acqua e sparsi di olio e sale: la sua cena era di
quella sera, chè la limosina era stata ben misera. L’annata precedente era
stata scarsa, e la carestia s’era fatta sentire in quell’inverno, e se non
indurito i cuori, certo li aveva resi un po’ egoisti e pessimisti. Ma Giovanna
non era pensierosa di ciò, in fondo, per lei, era sempre carestia; se la
giornata non fosse stata così piovosa, e le campagne così fangose da
affondarvi, sarebbe andata a raccogliere erbe e avrebbe cenato meglio. Altri
erano i suoi pensieri...
Luigi Natoli: La vecchia dell'aceto. Romanzo
storico siciliano ambientato nella Palermo del 1700. La storia di Giovanna
Bonanno, l’avvelenatrice passata alla storia come La vecchia dell’aceto.
L’opera
è costruita e trascritta dal romanzo originale, pubblicato a puntate in
appendice al Giornale di Sicilia nel 1927.
Pagine 562 – Prezzo di
copertina € 22,00
Disponibile dal sito www.ibuonicuginieditori.it, Amazon Prime, www.lafeltrinelli.it e tutti i siti vendita online.
In libreria presso La Feltrinelli libri e musica - Palermo.
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