Sul lido una comitiva
di cavalieri e di servi aspettava che qualcuno sbarcasse. Lo avevano visto nel
cassero della nave, lo avevano salutato con grandi segni di allegrezza, e ora
parlavan fra loro, nell’aspettazione, comunicandosi impressioni e commenti.
Finalmente, buttata
una lunga asse dal fianco della galera alla spiaggia, l’aspettato scese a
terra, abbracciò e baciò alcuni di quei cavalieri, strinse la mano cordialmente
ad altri; poi tutti inforcarono i cavalli, che i servi tenevan per la briglia,
e s’avviarono, lasciando che i servi scaricassero i bauli. La strada da
percorrere non era lunga: lo sprone, che dalla chiesetta della Catena, dove le
galere s’erano attraccate, costeggiava la vasta piazza marittima, o Marina, e
in fondo al quale torreggiava la mole del palazzo dei Chiaramonte, non ancora
terminato.
L’arrivo di quel
personaggio empiva così di gioia quelli che erano andati a riceverlo, che il
volto di lui pallido e fosco, si illuminava a quando a quando di un sorriso. La
cavalcata entrò nel palazzo chiaramontano, che per antonomasia era già indicato
col nome di “Steri” (osterium).
Allora l’ingresso non
era quello sconcio portone che vi fu aperto quando il nobile palazzo cadde in
mano degli Inquisitori del Sant’Officio, e che ancora si vede. L’ingresso era
nel lato meridionale, dalla parte della Dogana; e forse dove sono ora quegli
ignobili antri in servizio di questa amministrazione. Aveva dinanzi un vasto
piano, che da un lato era chiuso dalla Chiesa di S. Antonio e da vigne,
dall’altro dalle mura del vecchio quartiere della Kalsa, ancora esistenti
sebbene qua e là rotte da strade appena tracciate. La scala ascendeva da un
ampio vestibolo, che metteva nella corte, per un’ampia arcata. La corte era a
doppio ordine di portici, che durano ancora, ma non tutte le ali erano
terminate; nè era ancora decorato di dipinti il soffitto del grande salone del
piano superiore.
La comitiva,
scavalcata e date le redini ai valletti accorsi, entrò in una vasta sala a
pianterreno, le cui finestre davano nel portico. Aveva le pareti coperte di
armature e di armi, disposte in bell’ordine; di bandiere, di arazzi che
portavano in mezzo lo scudo del Chiaramonte, rosso con tre monti d’argento. Una
grande tavola coperta d’una candida tovaglia era nel mezzo della sala: e sopra
vi luccicavano vasi, boccali, coppe, piatti, tutto d’argento: e su grandi
piatti montagne di paste e confetture e uccellame odoroso di spezierie. Quando
tutti furono entrati, i valletti portarono i bacili d’argento e diedero l’acqua
alle mani, poi servirono in tavola. Il sommesso bisbiglio delle prime portate
si tramutò a poco a poco in un chiacchierio sonoro e confuso, sul quale però
sebbene la voce non fosse più alta, dominava quella del personaggio.
E ben si conveniva a
Matteo Palizzi, che dopo otto anni d’esilio e una condanna di fuor bando,
ritornava in Sicilia, a malgrado della condanna; gesto che agli amici, ai
vecchi partigiani, ai Chiaramonte suoi parenti pareva audace. Messer Matteo
però non aveva giocato d’audacia; né senza la protezione della regina
Elisabetta si sarebbe mosso da Pisa.
Tornava solo: Damiano
o per travagli o per malattie che segretamente lo logoravano, e gli
accrescevano i dolori e la collera dell’esilio, era morto in Pisa. Quella morte
privava Matteo di un consigliere esperto e astuto, di una guida sicura e prudente,
e accresceva il suo odio contro il baronaggio catalano, e segnatamente Blasco
Alagona; al quale attribuiva la sua disgrazia, e addebitava la morte del
fratello.
Le accoglienze e le
testimonianze di affetto e di devozione lo rinfrancavano, e accendevano nei
suoi occhi lampi di soddisfazione.
Ora lo investivano di
domande. In Palermo erano giunte scarse e scarne notizie del suo arrivo a
Messina: quale era la verità? Gli si era impedito veramente lo sbarco? Sì, era
vero. La regina Elisabetta col piccolo re Ludovico e con Orlando d’Aragona, un
bastardo del re Federico, era a Messina, e sapeva del suo arrivo. Segretamente
però: perché il bastardo del re non era del partito della regina.
Luigi Natoli: Latini e Catalani vol. 1 e 2 (Mastro Bertuchello e Il
Tesoro dei Ventimiglia) – Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo
del 1300, al tempo del regno d’Aragona, del conte di Geraci Francesco
Ventimiglia e dei fratelli Damiano e Matteo Palizzi, sullo sfondo della guerra
fratricida fra Latini e Catalani. I due volumi sono la trascrizione delle opere
originali pubblicate con la casa editrice La Gutemberg rispettivamente negli
anni 1925 e 1926.
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