mercoledì 15 maggio 2019

Luigi Natoli: Il casato dei Fiordimonte, baroni di Gibiso. Tratto da: I Cavalieri della Stella o La caduta di Messina

Era una vasta sala da pranzo, dai mobili di quercia, massicci, di quello stile pieno di volute e di cartoni che piacque tanto nel pieno seicento. Un’ampia tavola in mezzo e dei seggioloni dalle alte spalliere, coperti di cuoio nero con borchie di bronzo dorato; due grandi credenze o armadi su due pareti; dentro le quali splendevano le porcellane e il vasellame d’argento: in alto, su le pareti, in giro, panoplie di antiche armi, che al lume delle candele avevano bagliori sanguigni. C’era una grande semplicità, quasi austera nell’arredamento; ma nel tempo stesso una fine eleganza e una grande ricchezza intrinseca. Non era necessario un grande sforzo per capire che quella era la casa di un gran signore. E infatti l’illustrissimo signor don Gregorio Fiordimonte barone del Gibiso, era uno dei più ricchi signori di Messina. La sua nobiltà durava dalla venuta di Pietro d’Aragona. Un cavaliere, Jago de Florimont, segnalatosi nella battaglia del golfo di Napoli, e più tardi a quella della Falconara, aveva avuto in dono alcune terre fra Taormina e Sant’Alessio. Estintosi nel secolo XV il ramo primogenito, e per via di matrimoni passati i titoli principali in altre mani, era a don Pietro II, del ramo cadetto, rimasta la baronia del Gibiso, e ne era venuta una nuova dinastia, che aveva restituito alla casa l’antico splendore, vuoi per ricchi maritaggi, vuoi per una industria alla quale, seguendo il loro naturale, i Fiordimonte si erano dati sul finire del secolo decimosesto e nel seguente. Armavano navi da corsa, e davan la caccia alle navi barbaresche, – qualche volta anche a quelle francesi o inglesi. Guidate da capitani esperti, veri lupi di mare, nello sfidare le procelle, audaci e prudenti a un tempo nell’assalire il nemico, armate di ciurme che pareva vivessero di combattimenti, queste navi leggere e veloci, erano sfuggite sempre a una cattura, ed eran tornate a Messina, il più delle volte, traendosi dietro qualche galeone mercantile; la cattura del quale liberava dal remo qualche centinaio di cristiani, gittava negli ergastoli o nel mercato di Messina altrettanti barbareschi o greci, e nei magazzini del palazzo Fiordimonte grano, stoffe preziose, vasellami, oro, gemme: una vera ricchezza. Così i Fiordimonte erano diventati straordinariamente ricchi.
Don Gregorio, in gioventù, aveva voluto correre il mare, ed era stato fortunato; alla morte del padre però, posto a capo di una casa considerevole, aveva abbandonata la vita avventurosa e pericolosa, pensando che oramai era tempo di godersi l’ingente patrimonio, in quel suo palazzo che era celebrato come una reggia. Di trentacinque anni, nel 1660 aveva preso moglie; donna Laura de Gotho, di antica e provata nobiltà, minore di lui di venti anni: e già ne eran trascorsi dieci, ma non certo lieti o per lo meno contenti. Nessun figliuolo era venuto a rallegrare quelle nozze così disparate, nelle quali don Gregorio era entrato con tutta l’esperienza di un uomo, cui non eran mancate avventure; e donna Laura con tutte le trepidazioni di un’anima che, a un tratto dalle spensieratezze infantili si vedeva gittare nel mondo serio e così diverso della donna. Ella non aveva avuto il tempo di sognare né di pensare al matrimonio. Seguendo le usanze, il padre, l’illustrissimo signor don Tommaso, aveva trattato il matrimonio col nobile barone del Gibiso, sicuro di dare alla figliuola uno stato invidiabile, e lieto di collocarla così presto. Ma non fu lieta donna Laura. Ella non seppe del matrimonio che gl’impeti brutali del marito, che le davano una soggezione, quasi un senso di paura e di sgomento. Quell’uomo alto, robusto, abbronzato, coi capelli grigi e ruvidi, gli occhi verdastri, la voce grossa, le maniere rudi, che non le aveva mai detto una parola graziosa, che non le aveva mai suscitato il desiderio e il sentimento dell’amore; che la riguardava come una cosa, cui chiedeva soltanto, violentemente, un erede che non veniva, la faceva rabbrividire, ogni qual volta, con un gesto imperioso la faceva avvicinare a sè. Dopo cinque anni infruttuosi, i loro rapporti cessarono quasi del tutto; ciò che non spiacque a donna Laura, né addolorò don Gregorio. Ma la giovine signora, già cosciente, sentiva ora il gran vuoto nel quale viveva il suo cuore: nella solitudine in cui era lasciata qualcosa di indefinito, una aspirazione segreta, il desiderio di un affetto assai diverso da quelli conosciuti fino allora, le oscuravano la fronte di una profonda malinconia. Due persone mitigavano quella triste solitudine: il fratello Galeazzo, minore di lei di tre anni, bello, elegante, valoroso e gentile, e la piccola Cassandra Abate.
La piccola Cassandra Abate, attualmente educanda fra le Benedettine di S. Paolo, era una nipote di don Gregorio, orfana dei genitori; che spesso, in occasione di feste pubbliche, lo zio conduceva in casa. Cassandra Abate s’era affezionata a quella sua zia giovine e bella, come a una sorella maggiore; e donna Laura provava una tenera simpatia per quella fanciulla bellissima che le ricordava la sua fanciullezza, e proprio il tempo in cui anch’ella fu tolta da quel medesimo monastero, per passare fra le braccia di un marito nè amato nè conosciuto. 
Dopo qualche giorno, che la Cassandra Abate era venuta a passare, per la prima volta, le feste carnevalesche in casa dello zio, era venuto da Barcellona un cugino, Antonello Pirruccio, figlio di una sorella del magnifico signor don Tommaso de Gotho; e la storia di questo giovinetto, che a un tratto s’era trovato nel mondo, solo, povero, senz’altro che il suo nome, la sua spada e una chitarra, l’aveva interessata profondamente.



Luigi Natoli: I Cavalieri della Stella o La caduta di Messina. - Romanzo storico siciliano ambientato nella Messina del 1600
Nella versione originale pubblicata in 156 puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1908
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