Era questo detto dei Travaglini o più modernamente dal nome del
proprietario, di S. Lucia; dove recitavano le compagnie dei comici; e che poi
rifatto, abbellito e prevalso il secondo nome, si adattò a teatro d’opera,
rivaleggiando con quello più grande dei musici detto di S. Cecilia; finchè
ingrandito prese il nome di Carolino; e fu il solo e glorioso teatro d’opera di
Palermo, anche quando, mutato il regime, fu intitolato al nome imperituro di Bellini.
Allora, nel 1775, era un piccolo teatro che di fuori non annunziava punto che
nascondesse una sala da spettacoli. Una tettoia difendeva la porta sulla quale
una tabella di legno portava dipinto lo scritto: “Teatro di Travaglini”; un
corridoio senza luce, umido, con le pareti grommose, conduceva all’ingresso del
teatro, in fondo a un breve spazio. Una sala capace di trecento persone e tre
file di palchi; non vi erano poltrone, che allora non si usavano, ma sedie
numerate; una grande lumiera pendeva dal soffitto. Di giorno bisognava
abituarsi al buio per potersi movere e non inciampare in qualche sedia, ma di
sera si illuminava e si vedeva bene la fioritura delle belle vesti e la
bianchezza delle carni sull’addobbatura rosso cupo dei palchetti.
L’illuminazione era a cera nella lumiera e nei trionfi dei palchetti, ad olio
sul palcoscenico. Il quale era più tosto angusto; aveva in giro gli stanzini
degli attori, piccoli e malmessi, alcuni, invece di porta, erano difesi da una tendina;
gli uomini stavano da una parte in tre stanzini comuni, le donne in due, pochi stanzini
erano privilegiati. L’attrezzatura si componeva di tre o quattro scene con le
rispettive quinte; le scene erano arrotolate in alto e trattenute da corde che
penzolavano da un lato.
In quel tempo vi agiva una compagnia condotta da un siciliano, che
godeva grande opinione di buon attore, e recitava nelle parti di padre nobile:
si chiamava Domenico Minniti, era nato per così dire in teatro, perché era
figlio di comici. I suoi attori erano siciliani, ma il “Tiranno” e la moglie
erano napoletani, Antonio Zardo e Giuliana Buzelle, che in arte recitava da Beatrice.
Era quasi tutta una famiglia, chè fra loro erano imparentati: padri, madri e
figli recitavano o prendevano parte della compagnia come attrezzisti o
trovarobe. Ma Floristella no; era una trovatella o per essere più esatti, una
figlia dell’arte trovata in un angolo della porta di casa di Ferrazzano una
sera al ritorno dal teatro.
Si rappresentava il “Don Chisciotte”, commedia tutta da ridere, che
era il melodramma di Apostolo Zeno ridotto a commedia non certe innovazioni dal
Minniti. Molte scene si facevano a braccio, fra cui quelle del Minniti e quelle
del Ferrazzano. I personaggi avevano subito anche loro delle trasformazioni, e
in generale lo spirito della commedia era reso più allegro dell’originale. Il
duca aveva preso un nome, si chiamava “Asdrubale”, ed era rappresentato da
Antonio Zardo; la duchessa si chiamava “Doralinda” e la sosteneva una attrice, Anna Saverino,
“Don Chisciotte” era il Minniti, “Sancio Panza” il Ferrazzano, “Rosaura”
Giuliana Buzzelle, “Lauretta” Stefania Corona, “Don Alvaro” Vincenzo Migliocco,
“Florindo” Nino Pollione, “Donna Filomena” Carmela Grassa.
Luigi Natoli: Ferrazzano. Nell'unica versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 30 ottobre 1932.
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