mercoledì 7 febbraio 2018

Luigi Natoli: Viene il re! Tratto da: I mille e un duelli del bel Torralba


Il mare formicolava di barchette piene di gente, e come già l’aria si annerava, si accendevano fiaccole, che punteggiavano di stelle rosse l’oscurità, e coi lunghi tremolanti riflessi frugavano dentro la cupa profondità dell’acqua. 
Aspettavano. 
Le torri di guardia avevano nella mattinata segnalato una flotta che inalberava vessillo reale, segno che v’era persona regia a bordo; il Vicerè, il Pretore, avevano subito mandato l’Aurora comandata dal capitano Giovanni Bausan, a vedere di che si trattava, e l’Aurora aveva portato la gran notizia; viene il re con tutta la famiglia reale!  
La notizia si sparse in un lampo per la città: il re! Viene il re!... Da sessantaquattro anni i Palermitani non avevano visto un re: i vecchi ricordavano Carlo III e le feste della incoronazione: di questo Ferdinando, non sapevano che faccia avesse, se non attraverso le monete. Non era mai venuto a conoscere i suoi sudditi siciliani. 
- Eh! – dicevano i saputi con sufficienza: – si è persuaso finalmente a venire; soltanto con la sua presenza può avere il denaro che gli bisogna!
- Sì ma ci son voluti più di due anni per persuadersene. 
- E non è una cosa confortante che egli venga per spremerci nuovo sangue! 
- Infine viene! È il re!... il nostro re!... e viene!
Le allusioni erano al parlamento, tenuto nel settembre che aveva votato due milioni di scudi, per spese di guerra; milioni che al re eran parsi insufficienti, sì che l’aveva rifiutati e aveva ordinato alla Deputazione del Regno (la quale eseguiva le leggi e sostituiva il Parlamento, quando le sessioni erano chiuse) di elevare la somma; ma la Deputazione aveva nettamente dichiarato che non avrebbe fatto cosa contraria ai deliberati del Parlamento. Fra le condizioni sotto forma di preghiere, che accompagnavano il milione c’era anche quella che il Re venisse in Sicilia. 
Ma le altre allusioni più amare si riferivano agli ultimi editti di Monsignor Lopez y Rojo arcivescovo di Palermo e luogotenente del regno, nell’aprile scorso, coi quali imponeva la requisizione di tutti gli ori e gli argenti dei privati, delle chiese, dei conventi di tutte le case pie o religiose, salvo i vasi strettamente necessari al culto, le posate e i gioielli personali, delle donne e degli uomini. 
Tutto l’argento, tutto l’oro doveva portarsi alla zecca: pena a coloro che non ubbidissero agli ordini sovrani, che occultassero quel che possedevano: premi ai delatori. Naturalmente questi editti colpivano i ricchi: non osando ribellarsi apertamente, s’erano sfogati con una pasquinata, che odorava di giacobinismo. Fecero infatti trovare il 16 aprile, alla colonna del Palazzo di città, e alle porte dei Ministri un cartello con questi quattro versi:

O v’aggiustati, tiranni la testa
O di li morti faremu la festa. 
E chi vuliti ‘mpuviriri a tutti?
Chi oru? Chi argentu?! Un ....

E dove son puntini, una frase sconcia. Ma i malumori, le minacce, la povertà, le tasse gravose, tutto spariva all’annunzio che veniva il re. Avere il re in Palermo, era un’altra cosa; gli si poteva parlare, gli si potevan mostrare le condizioni del paese, i bisogni, i mali. Era un fiorire di speranze, nelle quali si mescolava la soddisfazione di avere finalmente il re; di vedere da vicino questo personaggio, che fino allora era stato un mito. 
Purtroppo, in quel primo diffondersi della notizia, nessuno sapeva o pensò che quel re fuggiva vilmente dalla sua reggia, dalla sua città, prima ancora che vi giungessero le baionette francesi; che abbandonava Napoli nell’anarchia, in potere della plebaglia dei lazzari. Ma poi nel corso della giornata qualche cosa cominciò a buccinarsi; le mezze parole portate dal Bausan, diventarono a furia di commenti, di supposizioni, di deduzioni, racconti esagerati; la notizia che a bordo c’era un figlio del re morto, per cui questi ordinava che non si sparassero cannonate a salve, né si facessero feste, fece galoppare le fantasie; Napoli apparve come un covo di giacobini, nemici del re; la pietà per questo re che veniva a cercare la salvezza in Sicilia, toccò le corde della istintiva generosità; nessuno pensò alle gravezze, alla povertà, ai bisogni; tutti i cuori furono pervasi da un sentimento cavalleresco di offrirsi per la difesa del Re. E per questo la gente accorreva, empiva da porta dei Greci al Molo, si gettava sulle barche, aspettava da lunghe ore. 
Finalmente di dietro il faro, si videro scorrere nell’aria nera i fanali issati negli alberi dei vascelli reali; questi svoltarono un po’ al largo; poi entrarono in porto lentamente e maestosamente; l’Aurora, rimorchiava un grosso vascello su cui, nell’oscurità, si vedeva sventolare il vessillo reale. Era il Vanguardia. Da tutte le barchette si levò un applauso e grida di Viva il Re, a cui risposero dal lido altre grida di giubilo. 
La folla supponeva che i sovrani e la famiglia reale sarebbero sbarcati subito, e aspettava; ma da bordo fu detto che il Re era stanco e non sbarcava. La Regina sì. C’erano sul Molo i ministri del Governo di Sicilia, il Pretore, molti Signori. La Regina con la famiglia, il cavaliere Aiton, sir e lady Hamilton, e poca servitù, scese di bordo a mezzanotte. Appena pose piedi a terra, disse: – Son venuta fra voi; se non mi volete torno a Napoli! 
- No! no! viva la Regina! Viva il Re! – gridarono i signori agitando i cappelli, e ripetè la folla con un frenetico sventolìo di fazzoletti, cappelli e berretti. 
Maria Carolina sorrise mestamente; salì nella carrozza del Vicerè, e senza apparati, senza solennità ufficiali ma accompagnata dalla folla con le torce, si recò alla reggia per riposarsi degli strapazzi dell’orribile viaggio e dar tregua al dolore materno.
La folla stette ancora un poco, curiosando, poi cominciò a rientrare in città; ma gran parte invece di andarsene a dormire, rimase per le strade, improvvisando dimostrazioni e luminarie, applaudendo al Re, e battendo le mani anche alle carrozze dei signori che tornavano ai loro palazzi, preceduti dai volanti con le torce accese.
Fra coloro che erano corsi al Molo c’era il conte don Placido di Torralba, pari del regno, ricchissimo signore di parecchi feudi; il quale aveva condotto con sé il suo primogenito don Francesco, che sperava quella volta stessa, presentare al Sovrano. Egli aveva anche permesso che i due cadetti Fabrizio e Rodrigo andassero al Molo...




Luigi Natoli: I mille e un duelli del bel Torralba. 
Edito in unico volume dalla casa editrice I Buoni Cugini dopo 92 anni dalla prima ed unica pubblicazione a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 1 febbraio 1926. 
Un complesso lavoro di ricerca e ricostruzione che riporta alla luce un grande romanzo per offrirlo ai lettori di oggi proprio come se si trattasse di un inedito. Un inedito di lusso. 
Pagine 456 - Prezzo di copertina € 24,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

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