Il mare formicolava di
barchette piene di gente, e come già l’aria si annerava, si accendevano
fiaccole, che punteggiavano di stelle rosse l’oscurità, e coi lunghi tremolanti
riflessi frugavano dentro la cupa profondità dell’acqua.
Aspettavano.
Le torri di guardia
avevano nella mattinata segnalato una flotta che inalberava vessillo reale,
segno che v’era persona regia a bordo; il Vicerè, il Pretore, avevano subito
mandato l’Aurora comandata dal
capitano Giovanni Bausan, a vedere di che si trattava, e l’Aurora aveva portato la gran notizia; viene il re con tutta la
famiglia reale!
La notizia si sparse in un
lampo per la città: il re! Viene il re!... Da sessantaquattro anni i Palermitani
non avevano visto un re: i vecchi ricordavano Carlo III e le feste della
incoronazione: di questo Ferdinando, non sapevano che faccia avesse, se non
attraverso le monete. Non era mai venuto a conoscere i suoi sudditi siciliani.
- Eh! – dicevano i saputi
con sufficienza: – si è persuaso finalmente a venire; soltanto con la sua
presenza può avere il denaro che gli bisogna!
- Sì ma ci son voluti più
di due anni per persuadersene.
- E non è una cosa
confortante che egli venga per spremerci nuovo sangue!
- Infine viene! È il
re!... il nostro re!... e viene!
Le allusioni erano al
parlamento, tenuto nel settembre che aveva votato due milioni di scudi, per
spese di guerra; milioni che al re eran parsi insufficienti, sì che l’aveva
rifiutati e aveva ordinato alla Deputazione del Regno (la quale eseguiva le
leggi e sostituiva il Parlamento, quando le sessioni erano chiuse) di elevare
la somma; ma la Deputazione aveva nettamente dichiarato che non avrebbe fatto
cosa contraria ai deliberati del Parlamento. Fra le condizioni sotto forma di
preghiere, che accompagnavano il milione c’era anche quella che il Re venisse
in Sicilia.
Ma le altre allusioni più
amare si riferivano agli ultimi editti di Monsignor Lopez y Rojo arcivescovo di
Palermo e luogotenente del regno, nell’aprile scorso, coi quali imponeva la
requisizione di tutti gli ori e gli argenti dei privati, delle chiese, dei
conventi di tutte le case pie o religiose, salvo i vasi strettamente necessari
al culto, le posate e i gioielli personali, delle donne e degli uomini.
Tutto l’argento, tutto
l’oro doveva portarsi alla zecca: pena a coloro che non ubbidissero agli ordini
sovrani, che occultassero quel che possedevano: premi ai delatori. Naturalmente
questi editti colpivano i ricchi: non osando ribellarsi apertamente, s’erano
sfogati con una pasquinata, che odorava di giacobinismo. Fecero infatti trovare
il 16 aprile, alla colonna del Palazzo di città, e alle porte dei Ministri un
cartello con questi quattro versi:
O v’aggiustati, tiranni la testa
O di li morti faremu la festa.
E chi vuliti ‘mpuviriri a tutti?
Chi oru? Chi argentu?! Un ....
E dove son puntini, una
frase sconcia. Ma i malumori, le minacce, la povertà, le tasse gravose, tutto
spariva all’annunzio che veniva il re. Avere il re in Palermo, era un’altra
cosa; gli si poteva parlare, gli si potevan mostrare le condizioni del paese, i
bisogni, i mali. Era un fiorire di speranze, nelle quali si mescolava la
soddisfazione di avere finalmente il re; di vedere da vicino questo
personaggio, che fino allora era stato un mito.
Purtroppo, in quel primo
diffondersi della notizia, nessuno sapeva o pensò che quel re fuggiva vilmente
dalla sua reggia, dalla sua città, prima ancora che vi giungessero le baionette
francesi; che abbandonava Napoli nell’anarchia, in potere della plebaglia dei
lazzari. Ma poi nel corso della giornata qualche cosa cominciò a buccinarsi; le
mezze parole portate dal Bausan, diventarono a furia di commenti, di
supposizioni, di deduzioni, racconti esagerati; la notizia che a bordo c’era un
figlio del re morto, per cui questi ordinava che non si sparassero cannonate a
salve, né si facessero feste, fece galoppare le fantasie; Napoli apparve come
un covo di giacobini, nemici del re; la pietà per questo re che veniva a
cercare la salvezza in Sicilia, toccò le corde della istintiva generosità; nessuno
pensò alle gravezze, alla povertà, ai bisogni; tutti i cuori furono pervasi da
un sentimento cavalleresco di offrirsi per la difesa del Re. E per questo la
gente accorreva, empiva da porta dei Greci al Molo, si gettava sulle barche,
aspettava da lunghe ore.
Finalmente di dietro il
faro, si videro scorrere nell’aria nera i fanali issati negli alberi dei
vascelli reali; questi svoltarono un po’ al largo; poi entrarono in porto
lentamente e maestosamente; l’Aurora,
rimorchiava un grosso vascello su cui, nell’oscurità, si vedeva sventolare il
vessillo reale. Era il Vanguardia. Da
tutte le barchette si levò un applauso e grida di Viva il Re, a cui risposero dal lido altre grida di giubilo.
La folla supponeva che i
sovrani e la famiglia reale sarebbero sbarcati subito, e aspettava; ma da bordo
fu detto che il Re era stanco e non sbarcava. La Regina sì. C’erano sul Molo i
ministri del Governo di Sicilia, il Pretore, molti Signori. La Regina con la famiglia,
il cavaliere Aiton, sir e lady Hamilton, e poca servitù, scese di bordo a
mezzanotte. Appena pose piedi a terra, disse: – Son venuta fra voi; se non mi
volete torno a Napoli!
- No! no! viva la Regina!
Viva il Re! – gridarono i signori agitando i cappelli, e ripetè la folla con un
frenetico sventolìo di fazzoletti, cappelli e berretti.
Maria Carolina sorrise
mestamente; salì nella carrozza del Vicerè, e senza apparati, senza solennità
ufficiali ma accompagnata dalla folla con le torce, si recò alla reggia per
riposarsi degli strapazzi dell’orribile viaggio e dar tregua al dolore materno.
La folla stette ancora un
poco, curiosando, poi cominciò a rientrare in città; ma gran parte invece di
andarsene a dormire, rimase per le strade, improvvisando dimostrazioni e
luminarie, applaudendo al Re, e battendo le mani anche alle carrozze dei
signori che tornavano ai loro palazzi, preceduti dai volanti con le torce
accese.
Fra coloro che erano corsi
al Molo c’era il conte don Placido di Torralba, pari del regno, ricchissimo
signore di parecchi feudi; il quale aveva condotto con sé il suo primogenito
don Francesco, che sperava quella volta stessa, presentare al Sovrano. Egli aveva
anche permesso che i due cadetti Fabrizio e Rodrigo andassero al Molo...
Luigi Natoli: I mille e un duelli del bel Torralba.
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