martedì 6 febbraio 2018

Luigi Natoli: Atenione e la seconda guerra servile. Tratto da: Gli schiavi.


Atenione intanto si preparava alla battaglia.
Giova qui ricordare questa battaglia, ricostruendola sui dati forniti da Diodoro Siculo e che fu la maggiore, se non la decisiva, combattuta in quella seconda guerra servile. 
L’esercito degli schiavi, uscito da Triocala, si aggirava intorno a quarantamila uomini, pei quali sopraffare diciassettemila Romani doveva essere un giuoco. Percorrendo una via tra valli e monti lungo l’Alba e, costeggiando quella che oggi dicesi Gran Montagna, guadando fiumicelli, si accampò alle radici dei monti Sicani, in un luogo che offriva modo di schierarsi. Il campo dei Romani era a dodici stadi di distanza. Il luogo era aperto, le foreste di querce e di faggi erano lontane; e più lontano ancora si levavano nel cielo nitido le creste dei monti detti oggi Genuardo e Trione.
Salvio divise il grosso delle truppe affidandolo a valorosi capitani. I frombolieri pose innanzi per affrontare i primi il nemico, dispose ai lati la cavalleria per appoggiare le truppe; duecento cavalieri scelti sotto il comando di Atenione stavano presso il re, per accorrere dove si manifestasse il bisogno. Salvio ordinò sacrifici agli Dei, che furono diversi, come diverso era il paese degli schiavi, ognuno pregando quella divinità a cui credeva. Iremisul pei Galli, Astarte pei Cartaginesi, Ares o Apollo pei Greci.
I Romani, di poco più di un terzo degli schiavi, formavano tre legioni, appoggiate dai Bitini, Tessali e Acarniani, e più dagli ottocento Lucani e dai Siculi, posti sotto Clepso valoroso ed esperto. Lucilio Lucullo ordinò propizi sacrifici a Giove, perché favorisse le loro armi, e interrogò gli aruspici. Le risposte furono come al solito sibilline, ma i Romani le interpretarono secondo le proprie aspirazioni.
Per più giorni i frombolieri dall’una parte e dall’altra si proiettavano ghiande di piombo, con iscrizioni: quelli di Salvio, per esempio, dicevano: “Pigliati questo”, o “A che venisti?” o “Viva trifone!”; quelli di Lucullo invece: “Va’ alla malora”, ovvero “Schiavo, pensaci”. Con i frombolieri si alternavano i veliti, armati alla leggera, che facevano delle scorrerie: preparazione necessaria, alla battaglia.
La quale finalmente eruppe come un fiume contenuto da un pezzo entro angusti confini, e che, cresciuto da piogge, improvvisamente dilaga. Prima i veliti attaccarono, seguiti dai frombolieri, i quali avevano ordine di ritirarsi dietro gli astari, quando questi si avanzavano. Da una parte e dall’altra si spiegavano i vessilli e le insegne; più numerosi e più ordinati quelli dei Romani atti alla guerra, sprezzanti del pericolo, persuasi che si battevano perché così voleva Roma, senza domandare il perché del loro sacrificio; si avanzavano disciplinati, fermi in cuore, sicuri. Erano pieni di spirito.
Gli schiavi non avevano questa unità. Patrie diverse, diversi i linguaggi e i costumi, essi non combattevano che per conservare quella libertà che avevano conquistato a prezzo di sangue e di rapine. Era la disperazione che presiedeva le loro azioni; sapevano di non trovare grazia presso i Romani: o la morte sul campo o crocifissi.
Il primo scontro fu tremendo; ogni Romano aveva contro più di due schiavi. Lucullo da un canto e Salvio dall’altro correvano a cavallo tra le file dei propri soldati, incoraggiandoli. Il Pretore aveva a fianco Cleone, i cui capelli grigi e il viso asciutto, solcato dai patimenti, aveva una espressione di fierezza, che poteva molto nei soldati. S’erano fermati, e guardavano l’esito della pugna, che era incerto. Dietro a loro stavano un mille uomini di riserva. 
- Che te ne pare del combattimento? – domandò Lucullo a Cleone.
Questi gli indicò a sinistra: la legione cedeva a poco a poco: si trattava di un aggiramento tentato dagli schiavi; riuscendo, i Romani erano perduti. Intuì il Pretore.
Si rivolse ai suoi e:
 - Avanti voi! – gridò.
E si lanciò alla sinistra.
La valanga umana, rovesciatasi da quella parte, trattenne le schiere che indietreggiavano, le incoraggiò, le voltò all’offensiva. Fu una ripresa violenta, irresistibile; spade e lance si cozzavano, si respingevano con furore cadevano da una parte e dall’altra, ma più erano gli schiavi; le armi romane non ferivano invano, il Pretore e Cleone correvano dove più era il pericolo; le loro spade non erano inoperose, il sangue rosseggiava sulle lame. Sotto l’infuriare della ripresa del combattimento gli schiavi cominciarono alla loro volta a venir meno alla difesa. Questo movimento a ritroso si propagò man mano nelle altre schiere, al centro e all’altra estremità.
Queste inutilmente avevano urtato i Romani. Sebbene più numerose, non potevano offrire che una fronte più ristretta; e non potevano distendersi per aver modo di combattere più agevolmente. Il fronte dei Romani era duro e non cedeva. Quando alla loro destra videro i propri compagni cedere ai colpi dei Romani, gli schiavi sentirono venir meno la loro fede nella vittoria. Cominciarono a ritirarsi: poi a fuggire.
Ma Atenione esclamò:
 - Vedremo fuggire i nostri dinanzi ai Romani?
E gridato ai duecento cavalieri: – A me! – si gittò come una furia contro i fuggenti rampognandoli fieramente. – Vergogna!… E che racconterete ai figli, che siete fuggiti in quarantamila contro diciassettemila?
Quei duecento cavalli, galoppanti in ordine serrato, arrestarono i fuggenti, si opposero alle legioni vittoriose, le assalirono. L’impeto li gettò contro di esse disperatamente; le spade si affondarono, spezzarono le loriche, percossero, piagarono, seminando la morte. Quei cavalieri parvero cosa meravigliosa, moltiplicatasi all’infinito. E avvenne l’effetto contrario a quello che prima si era manifestato; i Romani alla loro volta indietreggiarono; ma non si diedero per vinti. Intorno ad Atenione si affollarono i più per ucciderlo; molti sotto la sua spada caddero; egli fu ferito alle ginocchia da due soldati romani che volevano scavalcarlo e finirlo. Ma Atenione uccise i soldati e non cadde, pure non si sentiva più sicuro in sella. V’era intorno un mucchio di morti e di feriti, i cui gemiti si confondevano con le grida dei combattenti; e il mucchio aumentava. Atenione, sanguinante, lacero, pareva il genio della morte e della distruzione.
Lucullo, vedendo i suoi vacillare, corse in loro aiuto:
- Uccidetemi quell’uomo!
Atenione, assalito da ogni parte, colpito al petto, cadde col suo cavallo; altri caddero con lui.
- Dov’è Atenione? – Lo cercarono invano, poi una voce disse: – “È morto!”. – E allora lo scoramento improvviso si impadronì degli schiavi. Mancato l’animatore, l’invincibile, il coraggio venne meno; i cavalieri indietreggiarono, i fanti fuggirono. Nella fuga generale trascinarono cavalli e cavalieri. Per le vicende della battaglia i romani ripresero l’offensiva. Gli schiavi non si difendevano, si offrivano alla morte, generosa a chi moriva in guerra, ma ignominiosa a chi moriva in supplizio.
Era l’ora ottava; la fuga, nella quale il re Salvio che invano tentava radunare i suoi e ricondurli alla pugna, fu travolto, sottrasse parte dell’esercito alla carneficina, ma si contarono ben ventimila schiavi sul terreno; i Romani celebrarono il loro trionfo sul campo, ma non raccolsero il frutto della vittoria. Erano stanchi, rinunziarono a inseguire i fuggiaschi, e non riuscirono a sedare del tutto la ribellione.


Luigi Natoli: Gli schiavi. 
pagine 387 - prezzo di copertina € 22,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

Nessun commento:

Posta un commento