martedì 6 febbraio 2018

Luigi Natoli: re Salvio e il tempio degli dei Palici. Tratto da: Gli schiavi.


Il tempio sorgeva in riva al lago sacro ad essi, che oggi si chiama di Nafta. Lago misterioso e terribile, come erano i due fratelli. Si stendeva in mezzo a una pianura, allora coperta di boschi, e circondata ogni intorno di monti. Le acque or sì or no cresciute, secondo le piogge, esalano un gas idrosolforoso per due zampilli, segno che trattasi di fenomeni vulcanici. La tinta fosca per l’argilla che ne costituisce il fondo, e l’odore bituminoso che il vento spande intorno, allontanano gli uomini e le bestie. Se talvolta pecore, lepri e conigli vengono per dissetarsi, vi muoiono. Questa virtù letale lo fece sacro agli antichi Siculi, che immaginarono nei due zampilli i numi dei due fratelli Palici, nati gemelli dalle viscere della Terra. E innalzarono un tempio, che coi suoi portici e con altri edifici durò sotto i Greci e sotto i Romani, venerato, oggetto di riti antichi e tremendi. Chi invocava la protezione dei Palici e si ricoverava nel loro tempio acquistava il diritto d’asilo: e non poteva essere non che rimosso, ma neppure toccato. Gli schiavi lo sapevano: fuggiti dai padroni correvano nel santuario, e non ne uscivano, se non quando i padroni giuravano migliori trattamenti; e la promessa fatta innanzi ai Gemelli era mantenuta.
A questi dei si recava Salvio, prima di metter piede in quella Triocala, che destinava a  capitale del suo regno. Non era lontano. Quando vi arrivarono, si celebravano solennemente due riti. Era costume dei Siculi, adottato dai Greci, di richiamarsi ai Palici per giustificare un fatto, di cui non potevano fornire altre prove, chiamandoli testimoni e giudici. Anche oggi si ricorre al giuramento per provare checchessia. Si trattava di due cittadini, uno di Catana, uno d’Agrigento. Quello di Catana era accusato d’avere rubato una pecora. Non v’erano testimoni, e il padrone della pecora, convinto che il ladro fosse quello, invocò gli dei Palici. Ed erano venuti. Il Catanese, in tunica e coronato di lauro, pronunziava la sua denegazione, al cospetto dei sacerdoti. 
- Chiamo gli Dei, veraci Gemelli, che se io mentisco, mi trascinino agli Inferi!
Indi, dette queste parole, si fece innanzi e si chinò, fino a toccare i due zampilli; ma si chinò troppo, impallidì, e, tra l’orrore degli astanti cadde nell’acqua e sparve. Le esalazioni, che si alzavano di tre palmi sul livello del lago, l’avevano ucciso; ma allora si credette che i Palici  avevano testimoniato e giudicato il ladro. 
L’Agrigentino era condotto agli dei Palici, perché dicesse se la sua testimonianza era vera. La vista della tragica fine del Catanese gli fece preferire l’altro rito. Scrisse egli ciò che aveva detto prima in una tavoletta, e chiamando i Palici, gittò la tavoletta nel lago. Sparve questa, fra mille giri, ma subito emerse, ondeggiando lievemente. L’Agrigentino aveva detto il vero. Allora risuonarono applausi ed evviva, e per poco non fu portato in trionfo. 
Salvio attese che le due testimonianze si compissero, e che i famuli cercassero di pescare il corpo del morto; intanto volgeva gli occhi per il vasto piano, sul tempio, sugli edifici annessi. Oltre la boscaglia, sul colle più vicino, scorse le macerie di una città. Era lontano dai suoi occhi, e non poteva discernere quello che rimaneva in piedi: non vedeva che un ammasso di pietre e qualche colonna diritta, che stagliava l’azzurro del cielo. E pensava. Quelle erano le rovine di Nea, la città di Ducezio, re dei Siculi insorti contro la supremazia dei Greci. Nea pareva destinata a raccogliere le aspirazioni dei Siculi, a ordinarle, a disciplinarle. Sorta all’ombra degli dei Palici, pareva dovesse conservare la forza e la terribilità. Era un regno e una religione: quello era sparito, questa subiva le trasformazioni greche.
Pensando Salvio alla sua gente, che aveva cento patrie, lontane l’una dall’altra, con città diverse, con iddii diversi, con lingue diverse, si domandava se con questa poteva far nascere un nuovo regno in Sicilia, quando dell’antico omogeneo di Ducezio non esistevano che rovine.


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