Il tempio sorgeva in riva al lago sacro ad
essi, che oggi si chiama di Nafta. Lago misterioso e terribile, come erano i
due fratelli. Si stendeva in mezzo a una pianura, allora coperta di boschi, e
circondata ogni intorno di monti. Le acque or sì or no cresciute, secondo le
piogge, esalano un gas idrosolforoso per due zampilli, segno che trattasi di
fenomeni vulcanici. La tinta fosca per l’argilla che ne costituisce il fondo, e
l’odore bituminoso che il vento spande intorno, allontanano gli uomini e le
bestie. Se talvolta pecore, lepri e conigli vengono per dissetarsi, vi muoiono.
Questa virtù letale lo fece sacro agli antichi Siculi, che immaginarono nei due
zampilli i numi dei due fratelli Palici, nati gemelli dalle viscere della
Terra. E innalzarono un tempio, che coi suoi portici e con altri edifici durò
sotto i Greci e sotto i Romani, venerato, oggetto di riti antichi e tremendi.
Chi invocava la protezione dei Palici e si ricoverava nel loro tempio
acquistava il diritto d’asilo: e non poteva essere non che rimosso, ma neppure
toccato. Gli schiavi lo sapevano: fuggiti dai padroni correvano nel santuario,
e non ne uscivano, se non quando i padroni giuravano migliori trattamenti; e la
promessa fatta innanzi ai Gemelli era mantenuta.
A questi dei si recava Salvio, prima di
metter piede in quella Triocala, che destinava a capitale del suo regno. Non era lontano.
Quando vi arrivarono, si celebravano solennemente due riti. Era costume dei
Siculi, adottato dai Greci, di richiamarsi ai Palici per giustificare un fatto,
di cui non potevano fornire altre prove, chiamandoli testimoni e giudici. Anche
oggi si ricorre al giuramento per provare checchessia. Si trattava di due
cittadini, uno di Catana, uno d’Agrigento. Quello di Catana era accusato
d’avere rubato una pecora. Non v’erano testimoni, e il padrone della pecora,
convinto che il ladro fosse quello, invocò gli dei Palici. Ed erano venuti. Il
Catanese, in tunica e coronato di lauro, pronunziava la sua denegazione, al
cospetto dei sacerdoti.
- Chiamo gli Dei, veraci Gemelli, che se io
mentisco, mi trascinino agli Inferi!
Indi, dette queste parole, si fece innanzi
e si chinò, fino a toccare i due zampilli; ma si chinò troppo, impallidì, e,
tra l’orrore degli astanti cadde nell’acqua e sparve. Le esalazioni, che si
alzavano di tre palmi sul livello del lago, l’avevano ucciso; ma allora si
credette che i Palici avevano
testimoniato e giudicato il ladro.
L’Agrigentino era condotto agli dei Palici,
perché dicesse se la sua testimonianza era vera. La vista della tragica fine
del Catanese gli fece preferire l’altro rito. Scrisse egli ciò che aveva detto
prima in una tavoletta, e chiamando i Palici, gittò la tavoletta nel lago.
Sparve questa, fra mille giri, ma subito emerse, ondeggiando lievemente.
L’Agrigentino aveva detto il vero. Allora risuonarono applausi ed evviva, e per
poco non fu portato in trionfo.
Salvio attese che le due testimonianze si
compissero, e che i famuli cercassero di pescare il corpo del morto; intanto
volgeva gli occhi per il vasto piano, sul tempio, sugli edifici annessi. Oltre
la boscaglia, sul colle più vicino, scorse le macerie di una città. Era lontano
dai suoi occhi, e non poteva discernere quello che rimaneva in piedi: non
vedeva che un ammasso di pietre e qualche colonna diritta, che stagliava
l’azzurro del cielo. E pensava. Quelle erano le rovine di Nea, la città di
Ducezio, re dei Siculi insorti contro la supremazia dei Greci. Nea pareva
destinata a raccogliere le aspirazioni dei Siculi, a ordinarle, a
disciplinarle. Sorta all’ombra degli dei Palici, pareva dovesse conservare la
forza e la terribilità. Era un regno e una religione: quello era sparito,
questa subiva le trasformazioni greche.
Pensando Salvio alla sua gente, che aveva
cento patrie, lontane l’una dall’altra, con città diverse, con iddii diversi,
con lingue diverse, si domandava se con questa poteva far nascere un nuovo
regno in Sicilia, quando dell’antico omogeneo di Ducezio non esistevano che
rovine.
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