Giovanni
di Luna, malgrado la vigoria della sua vecchiezza era caduto sul letto,
soffocato da un nodo di pianto. I servi, muti, stavano nell’atteggiamento
afflitto di chi non sa come consolare un animo grandemente addolorato. Il
vecchio signore non resisteva a quella separazione. Già poco prima i suoi due
figli Francesco e Tomaso eran venuti alle mani tra loro rabbiosamente, e l’uno
morivane per fierissima ferita al capo, l’altro restava inutile a sé ed agli
altri, con le mani orribilmente squarciate. Adesso era la volta di Sigismondo,
il suo primogenito, l’onore della casa, che partiva per la vendetta, alla testa
di un vero esercito; che andava ad assaltare un castello forte e munito e difeso
da valorosi. Nel dividersi dal figliuolo, il vecchio sentiva stringersi il
cuore; era forse la prima volta che la commozione pietosa rammolliva
quell’anima dura e vendicativa.
Sigismondo
cavalcava.
Era
la notte del 18 luglio, calda e pensante. La luna splendeva purissima su tutta
la campagna di Sciacca; i colli, i boschi, le pianure si distinguevano
nettamente nella tenue luce azzurrognola; e giù, il mare aveva un color di
acciaio brunito, orlato al lido di un sottile filo d’argento. I cavalli sollevavano
nuvole di polvere; pure, nel fosco, tralucevano gli elmi e le corazze.
Sigismondo
cavalcava innanzi a tutti; percorrendo le vie stesse dove avea ricevuto
oltraggi, gli pareva che i sassi e i rovi ripetessero voci di scherno, onde
cupo e silenzioso, stringeva le redini e pungeva i fianchi del cavallo. E il
cavallo scoteva la nobile testa, drizzando gli orecchi e sbuffando. Così giunse
a un trar d’archibuso delle mura di Sciacca; e si fermò.
La
città era immersa nel sonno; su le torri le scolte sonnecchiavano, di là dalle
mura si scorgeva il castello normanno, dritto e nero nella notte luminosa; più
in là, fuori delle mura, il monastero delle Giummare.
La
truppa si era fermata dietro il signor Sigismondo, e guardava anch’essa.
Accursio Amato, Ferrante Lucchesi, Erasmo Loria, Calogero Calandrini, Cola
Vasco, Gian Pietro Infontanetta, Pietro Giliberto e Cesare Imbrogna gli stavano
intorno; in disparte Giorgio Comito, avventuriere albanese, con una banda
selvaggia di greci-albanesi raccolti a Mezzoiuso, a Palazzo Adriano, a
Contessa: dall’altro lato il signor Muchele Impugiades con una schiera di
cavalli, assoldati dal vecchio don Giovanni.
Guardavano
tutti la città, e ognuno sentiva nel petto una emozione indefinita e vaga; quel
tale turbamento che precede l’accingersi a una impresa. Giorgio Comito però
aspirava l’odore delle stragi e delle rapine; e il signor Sigismondo e i suoi
compagni sentivano risonare nell’animo l’ora della vendetta.
Allora
il conte Sigismondo divise le sue schiere in due: una comandata dal capitano
Impugiades andò ad appostarsi al monastero delle Giummare, l’altra con lui
scese dai colli fin presso alle mura di Sciacca e attese il giorno.
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