Quel
torrente impetuoso di folla affamata si versò nella via dei Banchi, per recarsi al palazzo del
Senato: innanzi a tutti il Martines agitando la spada. Il gridìo, il rumore
delle botteghe che si chiudevano precipitosamente, il fuggi fuggi delle donne,
chiamarono altri sulla strada. Un cavalier Spatafora, sdegnato di quelle grida
di morte, affrontò la folla briaca, rimproverandola. Il Martines rispose
tracotante, il cavaliere snudò la spada, ma qualche arrabbiato gli fu addosso,
lo ferì di coltello alla nuca. Fu il primo sangue versato nella guerra civile,
e forse sgomentò gli sciagurati che lo versavano. Al cadere dello Spatafora, si
arrestarono, si sbandarono.
Il
pericolo dell'aggressione convocò i senatori, e intorno ai senatori i
loro partigiani: deliberarono di ricorrere allo stratigò e chiedere energicamente giustizia; ma lo stratigò ne era in
cuore arcicontento. Si mostrò addolorato, perfino sdegnato; promise di punire
lo scellerato Martines; mandò anzi guardie e birri, che, naturalmente non lo
trovarono; e lo bandì con tutte le forme: ma sapeva già che il Martines era al
sicuro nel forte di Gonzaga, e sottomano scriveva alla corte per implorarne
clemenza.
Era questo il prologo della tragedia che doveva
insanguinare Messina, e doveva preparar la
caduta di tutte le sue libertà municipali: il sangue sparso e la impunità del
reo, dividevano la città: alle due fazioni il degno stratigò si affrettava a
dare un nome.
Il Senato comprese che non era più tempo di infingimenti, e che
bisognava guerreggiare apertamente contro la plebe sollevata e istigata e
contro lo stratigò che se ne era fatto il tribuno; chiamò sotto le armi i Cavalieri
della Stella, ordinò le milizie cittadine con le maestranze e la borghesia
fedeli alle istituzioni della città e nemiche di Spagna; la setta dal canto suo
si moltiplicò; tutti i suoi adepti
formarono ronde, posti di guardia, avvisatori: la città parve in stato di
guerra; e parve che l'autorità dello stratigò fosse annullata. Dei corrieri partivano
ogni giorno per Palermo, spediti dal Senato; ma altri ne partivano spediti
dallo stratigò, che non se ne stava con le mani alla cintola.
Ogni
notte, in una casa remota del quartiere di S. Giacomo, l'illustrissimo signor
don Luigi de l'Hoyo s'abboccava con i più avventati popolani; e tutti i suoi
discorsi finivano a un modo, che i mali della città derivavano dal potere del
Senato, e che non c'era altro rimedio che mettersi del tutto sotto la potestà
del re.
- Il re è il vero padre dei sudditi, per volere di Dio; ma
come mai voi, che siete suoi figli, vi sottraete alle sue cure paterne? Il
Senato usurpa il potere legittimo del re!...
Bisognava strappargli quel potere, stabilire il buon governo, aprire i magazzini
di frumento al popolo, dargli pane e felicità: ma bisognava anche essere
costanti e fedeli nella devozione al re e ai suoi ministri. Vedevano il suo
stemma? Aveva per insegna un merlo, simbolo della costanza, che quando becca
una cosa, non se la lascia sfuggire: essi dovevano essere appunto come i
merli.
- E noi siamo merli! – gridavano quegli
ardenti.
Il nome del nero uccello dal forte becco, parve il
segno, la bandiera, il motto d'ordine della fazione popolare, che, per una di
quelle anomalie non rare nella storia, era anche la fazione che minava le
istituzioni patrie, per asservirsi all'assolutismo regio. Il nome uscì da quei
conventicoli; si
diffuse tra le plebi, tra gli
artigiani, gli impiegati regi, qualche nobile, i gesuiti, i vagabondi; esser
merlo significò essere nemico dell'oligarchia del Senato, partigiano del
governo regio; e pareva titolo d'onore.
Luigi Natoli: I cavalieri della Stella o La caduta di Messina.
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