Dal
23 di marzo infatti la città di Messina era in preda a fiere convulsioni, che avevano
avuto tristi episodi di sangue. La fame da una
parte, le istigazioni dello stratigò dall'altra, avevano scatenato il popolo
contro la borghesia e il patriziato. Una sommossa era scoppiata, non
contro il governo regio, ma caso nuovo, sollecitata e capitanata dallo stesso rappresentante del governo contro
i rappresentanti legittimi della cittadinanza. Era ciò che don Luigi de l'Hoyo
aveva da un pezzo tentato, e che finalmente gli riusciva. Ed era appunto ciò
di cui egli, a modo suo, andava informando con corrieri speciali
l'illustrissimo ed eccellentissimo signor don Claudio Lamorald, viceré di
Sicilia.
Il
raccolto era stato nell'estate precedente scarso quanto mai, e la insipienza
dei governanti, accresciuta dai pregiudizi economici e anche dalla privata
ingordigia di qualche ufficiale dello Stato,
aveva gittata l'isola negli orrori della carestia. Se nelle maggiori
città, con provvedimenti rovinosi, i municipi, anche riducendo il peso e la
quantità del pane, giungevano a non far morire di fame le popolazioni;
nell'interno dell'isola, nelle terre demaniali e feudali non restava alle popolazioni
esauste che nutrirsi di erbe racimolate per le montagne.
L'inverno coi suoi rigori trovava l'isola in tali condizioni: a
liberarsi dalle quali gli abitanti delle provincie non trovavano altro scampo
che di accorrere nella città. Un bando del Viceré, che allontanava
dalla sola città di Palermo ben cinquantamila provinciali, e li mandava a
morir di fame tra’ monti, o a darsi al ladroneccio e all'assassinio, può dare
una pallida idea di quel che fosse in quei giorni lo stato dell'isola.
Messina,
per quanto ricca di commerci, non si trovava meglio. Il frumento mancava e
mancava il pane. Fin dal settembre il Senato se ne preoccupava, e dava
incarichi di provvedere, e sollecitava aiuti dal Viceré: ma senza frutto. Non mancarono coloro che al Vicerè fecero presente i pericoli in cui si incorreva per
la eccitazione del popolo ammiserito; ora era il castellano del forte Gonzaga
che gli scriveva scarseggiar da otto giorni il pane, e la plebe assalire e
depredare i forni; ora il castellano del forte del Salentore avvertiva che la
rivolta minacciava la città.
La città era ridotta al punto da dover forse numerare le
anime e dividere il pane a tanto per testa, e con bigliettini, o polizze.
Uno squallore, un'ansia paurosa di mali peggiori, un turbamento profondo
degli spiriti, avevano mutato l'aspetto della città. Due che s'incontravano, si
fermavano, fermavano altri; si formavano crocchi, si scambiavan querele, si
propalavano notizie più o meno vere, si formulavano accuse più o meno
fondate; si pronunciavano bieche parole, si ventilavano oscure minacce. Ogni
giorno che trascorreva, era una nuova voce insidiosa, un nuovo affaccendarsi di
gente; altri propositi, altre minacce: gli animi si eccitavano, si infrangevano
i freni della legge; i furti, i ricatti, i ferimenti aumentavano; aumentava la
rilasciatezza delle autorità, cresceva la insolente baldanza dei pescatori nel
torbido.
L'illustrissimo signor don Luigi de l'Hoyo,
fingevasi addolorato di questa miseria; ah! come piangeva al racconto dei
dolori e dei tormenti della fame!... Aveva aperto il palazzo a
quanti ricorrevano a lui, e a tutti dava buone parole.
- È una
disgrazia figliuoli; ma bisogna rassegnarsi e fidare sulla Provvidenza Divina: io farei di tutto per darvi pane...
saprei dove trovarlo il frumento... Ma!... Ma posso io usurpare il potere del Senato? Posso in coscienza far qualche cosa contro
i privilegi e le prerogative di questa città? Ditelo voi!... Si direbbe... Che
cosa non si direbbe?... Deve pensarci il Senato; io lo aiuterò, non
dubitate...
- Eh! – sclamava
qualcuno; – i senatori ce l'hanno il pane, in casa; non soffrono la fame
loro!...
- Lo so, lo so; – rispondeva don Luigi de l'Hoyo con un sospiro; – nei loro magazzini il frumento non manca di
certo. Ma è cosa tutta di loro... Possono anche venderlo, mandarlo via... Sono
padroni di farlo. Chi volete che glielo impedisca?...
-
Ladri! ladri! Affamatori!... – urlavano ferocemente e disperatamente i più
miserabili.
- Zitti! zitti! cos'è questo? Non sta bene. Sperate in Dio
e nella Santa Vergine della Lettera – (e don Luigi
si scappellava e s'inginocchiava). –
Sperate che tocchino loro il cuore e li illuminino...
Da questi discorsi, che si ripetevano con la stessa
untuosità, penetrava nell'anima della plebe il convincimento che affamatori
della città fossero i senatori.
“Pubblici ladroni qualificati” li andavano chiamando i
familiari dello stratigò; e l'ingiuria raccolta dallo stesso stratigò veniva
comunicata in un lungo memoriale al Viceré, come una verità di fatto. Lo
stratigò aveva dopo la sconfitta patita il 25 di luglio del 1671, composta una
sua società segreta, una specie di setta da contrapporre alla setta dei patrizi
e dell'alta borghesia; l'aveva composta di popolani maneschi e capaci di ogni
disordine; alcuni dei quali, però, dal Senato che aveva sventato la trama,
erano stati carcerati e banditi.
Costoro
andavan diffondendo le notizie più odiose contro il Senato.
Il Senato, impensierito dalla mancanza di frumento aveva sollecitato
il viceré di
Napoli ad adempiere all'obbligo fattogli dal privilegio di Carlo V; ma lo
stratigò aveva scritto segretamente e persuaso quel viceré a non mandar nulla.
La setta lo seppe, e propalò la notizia: ma il popolo non vi prestò fede. Come
mai lo stratigò poteva pensare ad affamare Messina, se raccoglieva i poveri nel
palazzo reale e li sfamava del suo? Gli affamatori, i ladri erano i senatori.
- Ne
volete una prova? Vedete un po'; hanno posto il pane in deputazione per
guadagnarvi sopra! Cani!
Mettere il
pane in deputazione significava sottrarlo alla vendita privata, municipalizzarlo,
come si direbbe ora: ma allo scopo di dividerlo a tanto a testa, in razioni
uguali, che, per la carestia, erano esigue e più che togliere, solleticavano la
fame. Ma con questo provvedimento il Senato ne prese un altro. Si valse del
diritto di poter armare navi e ne armò cinque, munite di artiglierie, sotto il
comando di un nobile don Francesco Di Giovanni, e di un borghese don Carlo
Laganà, per andare in cerca di grano, anche con la forza. E inoltre eresse un
fortino alla punta del Faro, per obbligar le navi che attraversavano lo
Stretto, ad abbassar le vele e farsi visitare, se mai trasportassero grano.
I
cinque vascelli partirono fra gli auguri di tutto il popolo, salutati sul porto
dalla nobiltà e dal Senato in forma solenne, e dai bastioni con salve reali
delle artiglierie: ma tutto ciò parve a don Luigi de L'Hoyo, come scrisse al
viceré, cosa che sdegnava “l'animo di tutti e quello che più importa, la
giustizia di Dio”, perché “contro ogni forma di procedura e di dovere”; e
perché il Senato aveva assoldata gente “della più facinorosa del paese”
concedendo gradi e titoli; e le ciurme andavano “con pistole e stiletti alla
cintura, con manifesto e deplorabile vituperio della giustizia”.
La flotta tornò, dopo aver invano battuto le coste del
Tirreno, e atteso invano al largo dei caricatori le navi piene di frumento che doveva dar pane a Messina, tornaron
vuote, come eran partite; non accolte dal popolo festante, ma dal silenzio disperato
di una città affamata. Era il 23 marzo. La moltitudine che si accalcava al
porto, aspettando i sacchi, cominciò a brontolare:
-
E perché dunque tante spese di armamento, se non hanno saputo portare neppure
un moggio di frumento?...
Qualcuno alzò la voce più forte, accusò il Senato di
tradimento; gli animi della plebaglia si accendevano; un orefice, certo
Giuseppe Martines, oriundo spagnuolo, sguainata una spada corta, cominciò a
gridare:
- Serra! Serra!... Morte alla canaglia dei senatori!... Ammazza!... Ammazza!...
Il grido
trovò facile eco nell'animo della folla esasperata; cento, mille bocche lo ripeterono
con la collera della disperazione; cento mani si levarono minacciando.
Luigi Natoli: I cavalieri della Stella o La caduta di Messina.
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