martedì 6 settembre 2016

Luigi Natoli e le rivoluzioni siciliane. Tratto da: Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana del 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.


Nel 1820 i Palermitani erano soli, e senza capi, e cacciarono le truppe napoletane, che eran cinquemila uomini con cannoni e cavalleria; e nel 1848 erano solissimi, quando costrinsero le truppe regie a lasciare Palermo. Le statistiche dànno che i siciliani combattenti non superarono le due migliaia, e i borbo­nici erano in Palermo, coi rinforzi sopraggiunti dodicimila! (127). E la lotta fra i regi fortificati nelle caserme e nel Castello, e il popolo della città e delle campagne, durò semplicemente ventisei giorni. Per ventisei giorni un popolo, bombardato, combattè; e non posò le armi se non quando l'ultimo dei regi, fuggendogli innanzi, lungo la marina di Solunto, non s'imbarcò. Non so quale altra città d'Italia abbia, fra le sue mura, combattuto ven­tisei giorni! Ma allora, forse, o le squadre e il popolo non si erano sufficientemente addestrati a fuggire, o erano d'accordo coi regi!

E sedici mesi dopo, quando le truppe borboniche, comandate dal Satriano, marciano su Palermo? Ma guar­date un po’ che cosa viene in testa alle squadre citta­dine! Invece di addestrarsi a fuggire, tengono in scacco per tre giorni i Napoletani; e non posan l'armi che per onorevole capitolazione.

E dopo il 4 aprile 1860? Piana, Mezzoiuso, Misil­meri, Alcamo, Partinico, Carini insorgono e mandano squadre sopra Palermo. Queste squadre incominciano una guerra tormentosa, e perfino compiono qualche eroico gesto. Duecento uomini o poco più, nel villaggio di S. Lorenzo, attaccati il 5 aprile da una forte colonna di regi, non soltanto non fuggono, ma fanno indietreg­giare i regi stessi: i quali tornano con cavalleria, e due altre compagnie fresche; perdono trenta uomini, e son costretti a ritirarsi un'altra volta. E di questi episodi ne avvengono a Bagheria, a Lenzitti, dovunque.

Il 21 maggio 1860, alla Neviera, queste squadre, che da oltre un mese vivevano sui monti, dormendo allo sco­perto, bagnati dalla pioggia, soffrendo la fame, sosten­gono l’urto di tre colonne borboniche. Vi perdono la vita, fra gli altri, Rosalino Pilo e Pietro Piediscalzi, ma salvano Garibaldi dall'essere assalito a Renda; ciò che nella migliore ipotesi lo avrebbe costretto a ritirarsi sopra Castrogiovanni; e addio rivoluzione. Questa è storia documentata; ma nondimeno si continuerà a ripe­tere che le squadre nel 1860, per compiacere il signor Guerzoni, il signor Luzio, e compagnia, fuggivano!

 Rendere omaggio a quelli dei Mille che mori­rono o ebbero ferita, è dovere: ma tacere i nomi dei Siciliani caduti, negare anzi che si siano battuti, peg­gio ancora calunniarli, non è soltanto ingiustizia, è viltà.

Ma il torto è però nostro. Dal 4 aprile a tutto il 1860, noi in Sicilia demmo alla causa della libertà e dell'unità centinaia di morti; dei quali non raccogliemmo i nomi, nè si seppe mai chi fossero. I morti dei volon­tari potevano essere identificati agevolmente, con l'aiuto dei registri dell'Intendenza; ma quelli delle squadre, no. Neppure i capi-guerriglia conoscevano i nomi dei loro uomini; quei contadini lasciavano le loro terre, le loro case, le loro famiglie; andavano a ingrossare una squa­dra, combattevano, taciti, senza chiedere altro che il loro pane e le munizioni; morivano avvolti nello stesso silenzio; nessuno domandava chi erano, donde venivano; e i più, la gran maggioranza, restò ignota, anonima, senza postuma gloria, senza compianto, senza onori. Martiri oscuri diedero la vita alla Patria e non conte­sero la gloria a nessuno.

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