Quando, decapitato Andrea, i beni furono
confiscati, e Caccamo e gli armenti del conte di Modica furono dati da re
Martino a messer Galdo di Queralt, uno degli avventurieri catalani venuti col
re, Caccamo si ribellò, assalì il castello, cacciò via gli ufficiali del nuovo
conte e, stretta poi d’assedio, si difese gagliardamente. Il re fu costretto ad
accogliere il voto dei caccamesi e a decretare Caccamo città regia, e che mai
potesse venire alienata e concessa ad altro barone. Ma nove mesi dopo, cioè sul
finire del 1396, fu data in feudo a don Giaimo de Prades, parente del re e
grande ammiraglio del regno.
Caccamo insorse una seconda volta. Don
Giaimo de Prades ebbe dal re l’incarico di sottometterla. L’assedio durò a
lungo; la città stremata di forze, dovette sottomettersi e domandar perdono.
I più ostinati tra’ ribelli, esclusi dal
perdono regio, giudicati fuor bando, si gittarono fra’ monti per salvar la
vita, vivendo di imposizioni e di scorrerie; razziando gli armamenti in specie
dei baroni di origine catalana, dando così al loro brigantaggio un colore
politico, che cattivava loro le simpatie delle popolazioni.
Le rivalità fra i baroni, la necessità di
avere sottomano uomini risoluti per difendersi da aggressioni o per farne, dava
qua e là ricovero a quei banditi, e col ricovero la sicurezza dell’impunità.
Coloro che pativano vendette o
rappresaglie se ne lamentavano col re: il re scriveva ai capitani delle città
regie, impartiva ordini ai baroni, prometteva premi; ma i banditi se ne
ridevano. I capitani delle città non avevano milizie; i baiuli e i giurati, –
che è come dire i magistrati municipali – non avevano da parte loro alcuna
ragione di perseguitare quei banditi, che, pigliandosela coi baroni, rendevano
assai spesso, indirettamente, qualche buon servigio alle città.
Così essi vivevano sicuri. Non mancava loro
dove dormire la notte, né dove trovare agnelli e maiali e vino e pane, e quanto
potesse loro occorrere. I boschi per altro abbondavano di selvaggina.
Una mattina quegli uomini, riposando
all’ombra delle querce e degli elci del Godrano, videro un uomo a cavallo,
d’aspetto feroce, con le vesti a brandelli. Qualcuno lo riconobbe.
- È
Vitale! È Vitale!
Agli abbracci, seguirono le spiegazioni.
Gli altri si erano avvicinati; essi conoscevano di nome Vitale, che era stato
lo scudiero devoto di messer Andrea.
Sfuggito all’arresto e alla morte, errava
anche lui pei boschi come una selvaggina inseguita.
Quel giorno egli diventò il capo di
quella banda, alla quale diede un nuovo indirizzo. Compiere ogni genere di
rappresaglie contro quel nuovo baronaggio catalano venuto coi due Martini in
Sicilia, e che a poco a poco s’andava sostituendo agli antichi baroni. Razzie
di bestiame, incendi di ricolti, taglie. Quando occorreva, una freccia esperta
e terribile serviva a punire gli audaci.
Le gesta di Vitale e dei suoi compagni
cominciarono a diffondersi e ad acquistare un colore leggendario.
Un giorno Vitale seppe che
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