(gennaio 1806) I
Collalto avevano ancora tanto da poter vivere con decoro, tra la folla degli
emigranti napoletani miserabili e prepotenti che s’era gittata in Palermo.
La città infatti offriva
uno spettacolo singolare: per le strade si incontravano piccoli nobili,
impiegati dei ministeri e delle aziende dello stato, preti, frati di tutti gli
ordini, che fuggiti dietro alla Corte o per fedeltà verso la famiglia reale, o
per paura, o per vivere a le spalle altrui, andavano oziosi e pretenziosi;
ritenendo che pel loro attaccamento alla causa reale, e perché vittime
dell’invasione avevano diritto ad essere mantenuti dai Siciliani. I nobili
ottenevano per sé anche le cariche che sarebbero toccate di diritto ai
Siciliani; i magistrati si ficcavano nei tribunali; quei fuggiaschi si
conducevano come in un paese di conquista; e strappavano alle casse della
Sicilia, troppo esauste, oltre a seicento mila lire di nostra moneta, ogni anno
per sussidi: somma, per quei tempi enorme, e pel valore del denaro, dieci e più
volte maggiore che oggi. E non solo: essi vivevano a spese della Sicilia, e ne
occupavano gli uffici, ma alla invadenza e alle usurpazioni, univano il
dispregio, per la protezione del re, e segnatamente della regina.
Era nota l’antipatia di
Maria Carolina pei Siciliani e per Palermo, di cui arrivavano a calunniare
perfino il clima, scrivendo che vi si moriva di freddo e che di marzo c’erano
le nevi! Essa in questo nuovo rifugio, se trovò dei nobili che le furono devotissimi
e fedelissimi, non ebbe in generale le calde accoglienze del popolo come la
prima volta. Così all’antipatia si aggiunse la diffidenza: si circondò di una
polizia segreta, a capo della quale pose un Colonnello Castrone, analfabeta,
senza scrupoli, ladro, ma abilissimo architetto di spionaggio; che organizzò
fra i peggiori emigrati napoletani e francesi e fra i siciliani più laidi o più
fanatici, un vero esercito di spie, detti il “Corpo degli svaligiatori”.
La protezione largamente
data ai Napoletani, la diffidenza palese contro i Sicilia ni, generavano
antipatie e fecondavano i germi della discordia fra gli uni e gli altri.
Anche in Messina vi
erano emigrati napoletani ai quali la Corte aveva dato uffici e gradi,
negandoli e anche togliendoli ai siciliani. Era la politica del governo che,
favoriva tutta quella accozzaglia di gente diversa che non lo aveva saputo
difendere, a detrimento di un popolo che gli dava asilo, e le sue sostanze e i
suoi uomini per comporre un esercito. Con uno slancio generoso i baroni
siciliani si erano infatti offerti a levare milizie nelle loro terre e a
mantenerle a loro spese; e in poco tempo si era raccolto un esercito di
trentaseimila uomini, comandati dai loro signori feudali; ma questo esercito
che non costava nulla al governo, aveva suscitato i clamori e le proteste degli
ufficiali napoletani, che percepivano stipendi senza far nulla, mentre le due
decine di migliaia di truppe regolari languivano nelle caserme, nude, affamate
e senza munizioni. Suscitata la diffidenza della Corte, presentando quella
milizia come un pericolo pel re, non si era provveduto a essa, e i baroni erano
stati costretti a rimandare i loro vassalli nei feudi. Pure, qualche anno più
tardi, furono queste milizie paesane che respinsero uno sbarco di francesi in
Sicilia, e salvarono il re dall’invasione.
Coi favori, col denaro
profuso verso i napoletani, con lo svalutamento dei siciliani, le perquisizioni
poliziesche del colonnello Castrone e del colonnello Colaianni, che vedevano
dovunque i nemici della Corona, si scavava un abisso fra i due popoli. I
napoletani si conducevano da padroni e ritenevano un loro diritto quel che era
prodotto dalla generosa ospitalità; i Siciliani, non soffrivano quell’aria da
conquistatori, e ne nascevano urti che alimentavano e creavano quel dualismo
nefasto; non ultima ragione dei moti che più tardi scoppiarono in Sicilia.
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