All’alba del 12 poca gente disarmata uscì curiosa per le strade; un certo Vincenzo Buscemi, vedendosi il solo armato, credette ad un tradimento e tirò la prima fucilata. Sopraggiunsero altri nella piazza della Fieravecchia e fra essi Giuseppe La Masa armato, venuto da due giorni nascostamente da Firenze, che cominciò ad esortare i convenuti. Giovane, di bell’aspetto, con una pronuncia toscaneggiante, ignoto a tutti, fu creduto uno dei capi venuto dal Continente. Allora il giovane avvocato Paolo Paternostro salì sulla fontana che orna la piazza, ed arringò la folla, che si veniva facendo. Si gridò Viva Pio IX! Viva l’Italia! Viva la Sicilia! Il La Masa scrisse un breve proclama, in nome di un Comitato provvisorio della Piazza d’armi della Fieravecchia e improvvisò una bandiera legando un cencio bianco, uno rosso e uno verde in una canna. Ma Santa Astorina, moglie di Pasquale Miloro, uno degli accorsi, portò una bandiera e coccarde tricolori preparate dal marito nella notte. Si cominciarono a sonare le campane a stormo. Gli insorti erano qualche centinaio e si divisero a squadre; avvenne uno scontro contro la cavalleria, e vi trovò la morte Pietro Omodei, il primo cittadino caduto. Se il Comando non avesse ritirato le truppe, avrebbe potuto troncare i pochi insorti, ma memore del 1820, forse temendo imboscate, non osò prendere una vigorosa offensiva, e segnò la sua condanna.
Un vero Comitato provvisorio della Piazza d’Armi, fu costituito in piazza Fieravecchia coi nomi del La Masa, di Giuseppe Oddo-Barone, barone Bivona, di Tommaso Santoro, di Salvatore Porcelli, di Damiano Lo Cascio, di Sebastiano Corteggiani, di Giulio Ascanio Enea, di Mario Palizzolo, di Pasquale Bruno, dei tre fratelli Cianciolo, di Giacinto Carini, di Rosario Bagnasco, di Leonardo Di Carlo, del principe di Villafiorita, di Giovanni Faija, di Rosalino Pilo, dei fratelli D’Ondes; ai quali poi si aggiunsero Salvatore Castiglia, Filippo Napoli, Ignazio Calona, Vincenzo Fuxa, il principe di Grammonte e qualche altro.
Il giorno dopo cominciarono ad arrivare le squadre dei dintorni, e si ripresero i combattimenti per espugnare i Commissariati e i posti avanzati, come quelli delle Finanze e della vicina gendarmeria. Intanto, essendo necessario provvedere ai bisogni della città e della rivoluzione, fu convocata, dal pretore marchese di Spedalotto, la municipalità con l’intervento dei membri del Comitato della Fieravecchia e di altri cittadini, e si convenne la costituzione di un grande Comitato, diviso in quattro Comitati minori, uno per la guerra e la sicurezza, presieduto dal Principe di Pantelleria, il secondo per l’annona, presieduto dal Pretore, il terzo per raccogliere le somme, presieduto dal marchese di Rudinì, il quarto per le notizie, la stampa, la propaganda, presieduto da Ruggero Settimo, il quale fu posto anche a capo del Comitato generale, con Mariano Stabile segretario. Si istituirono inoltre ospedali pei feriti nella Casa Professa dei Gesuiti e nei conventi di S. Domenico e Sant’Anna; il fiore dei medici offerse l’opera sua, gratuitamente. Due Commissioni, delle quali una di donne, attesero alla beneficenza.
Le truppe regie, al comando del maresciallo Vial, sommavano a cinquemila uomini.
Il 15 intanto, su otto legni da guerra, giungevano altri cinquemila e più uomini sotto gli ordini del conte d’Aquila, fratello del Re, e del maresciallo De Sauget, che sbarcati al Molo cercarono di spingere collegamenti col Palazzo reale, ma ne furono impediti dagli insorti. Nè altri tentativi, sebbene appoggiati dal bombardamento e dalle artiglierie, ebbero miglior fortuna. Le bombe recavano danni anche agli edifici privati; il 17 una di esse fece divampare un incendio nel Monte di Pietà di S. Rosalia, consumando i pegni della povera gente per oltre mezzo milione di nostre lire: onde i Consoli esteri, che avevano cercato invano di parlare col Luogotenente Generale a rischio della vita, protestarono con pubblico documento.
Intanto gl’insorti si erano impadroniti di alcuni Commissariati, e immobilizzavano le truppe del conte d’Aquila, che lasciato il comando al De Sauget, se ne tornava a Napoli per riferire. Il 18, il generale Di Maio invitava il Pretore, marchese di Spedalotto, ad un abboccamento, per evitare ulteriore spargimento di sangue. Il Pretore rispondeva sdegnosamente: « La città bombardata da due giorni, incendiata in un luogo che interessa la povera gente, io assalito a fucilate dai soldati, mentre col console d’Austria, scortato da una bandiera parlamentare mi ritiravo, i Consoli esteri ricevuti a colpi di fucile quando, preceduti da due bandiere bianche si dirigevano al Palazzo Reale, monaci inermi assassinati nel loro convento dai soldati, mentre il popolo rispetta, nutre e guarda da fratelli tutti i soldati presi prigionieri, questo è lo stato attuale del paese. Un Comitato Generale di pubblica difesa esiste; V. E. se vuole, potrà dirigere allo stesso le sue proposizioni».
Di nuovo il 19 il Di Maio scriveva al Pretore, domandando quali fossero i desideri del popolo, che egli avrebbe subito fatto conoscere al Re, interessandolo frattanto per una sospensione d’armi. Il Pretore, trasmessa la lettera al Comitato e avutane risposta, la comunicava, esprimendo essa l’universale pensiero: «Il popolo coraggiosamente insorto non poserà le armi, e non sospenderà le ostilità, se non quando la Sicilia, riunita in general Parlamento in Palermo, adatterà ai tempi quella sua Costituzione che, giurata dai suoi Re, riconosciuta da tutte le Potenze, non si è mai osato di togliere apertamente a questa Isola. Senza di ciò qualunque trattativa è inutile». Ancora il Luogotenente Generale spediva al Pretore quattro decreti del re Ferdinando in data del 18: il Re nominava il conte d’Aquila luogotenente generale, istituiva un Consiglio di Ministri , e richiamava in vigore i decreti del dicembre 1816. Ma i decreti erano respinti, e respinte le proposte del generale De Sauget, al quale si rispondeva che era ben noto il senso delle disposizioni date dal Re, che il popolo «con la sua sublime logica» aveva «inappellabilmente giudicate». Si ripresero con maggior vigore i combattimenti. Il Comando Generale senza viveri, senza ospedali, senza mezzi, chiuso nella piazza del Palazzo, si vide costretto ad abbandonare la città e mettere in salvo le truppe. E nella notte del 26 il Di Maio, il comandante generale Vial e gli altri generali, precedendo le truppe, fuggirono per imbarcarsi nelle spiagge orientali. Nella marcia le truppe si vendicarono della sconfitta incendiando villaggi e assassinando; ma inseguite dai contadini, la marcia si mutò in fuga. Ma prima di andarsene, il Governo borbonico apriva le porte delle carceri e riempiva le città di migliaia di malfattori.
Messina non restava inerte...
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