Era trascorsa oramai più di un’ora e mezza da quando avevano cominciato a cercare: e seguendo quella nuova traccia, si trovavano ora sul monte Caputo, sopra Monreale. In cima vedevano torreggiare il Castellaccio con le sue grandi torri laterali; mole solitaria, posta su quella sommità come per vegghiare su due valli. Pareva che le orme guidassero al Castellaccio: e non era improbabile che i banditi vi si fossero rifuggiati; giacché spesso i ladri ne avevano fatto una base delle loro operazioni, e spesso vi si erano ricoverati i perseguitati dalla giustizia. Ma questa riflessione impensierì il capitano. Se i banditi s’erano rifuggiati nel Castellaccio, occorrevano due reggimenti di granatieri per prenderli; perché da quella fortezza essi avrebbero potuto difendersi bravamente, e respingere qualunque assalto. Pensava ancora che quando meno se l’aspettavano, una salve di fucilate avrebbe accolto lui e i suoi compagni indifesi, e senza un riparo che li proteggesse. La prudenza consigliava di mandare innanzi un esploratore.
Il cavaliere di Santa Croce disse:
- Andrò io.
Erano forse a trecento passi dal Castellaccio. Il capitano e i suoi uomini si fermarono e, per essere meno visibili sedettero per terra, con gli schioppi su le cosce. Il cavaliere armatosi di due pistole, si avanzò fieramente risoluto. La mole del Castellaccio gli si ingrandiva dinanzi agli occhi, rivelando tutte le rughe e i solchi del tempo.
Era la prima volta che egli vedeva da presso quell’edificio, sul quale correvano leggende paurose; e credeva, come tutti, che fosse un’antica rocca dei Saraceni. Ora, avvicinandovisi, le favole di incantesimi, di stregonerie, di spiriti, che aveva udito raccontare da fanciullo, ritornavano nella sua memoria, e gli facevano apparire il Castellaccio ammantato in un velo misterioso. Più che il pericolo reale, cui poteva andare incontro, gli occupavano lo spirito quelle storielle superstiziose; ma sentiva troppo amor di sè per dar segno di debolezza.
Si avanzò risolutamente fin sotto le alte massicce mura, e si fermò a guardare: un’ampia breccia faceva da porta e lasciava vedere come una grande sala scoperchiata e ingombra di macerie. La luna vi entrava liberamente e illuminava la parete di fronte, sulla quale si proiettava obliquamente l’ombra della parete laterale. Grandi buchi neri si aprivano qua e là, simili ad enormi orbite vuote, cui ciocche di capperi facevan da sopraciglia. Delle fenditure lunghe e irregolari sembravan rughe mostruose o ferite spaventevoli. Il silenzio scendeva col chiarore lunare, e l’uno e l’altro pareva si scambiassero le sensazioni: ma di tanto in tanto si udiva un fruscio in alto, come di ali, e un’ombra attraversava la parete. Poi s’udì un miagolio. Parevano segni di una vita misteriosa, di esseri sconosciuti, che mettevano nel sangue dei brividi freddi. V’era infatti qualche cosa che agghiacciava in quella rovina solitaria della quale la luna rivelava l’orrore.
Il cavaliere di Santa Croce si rimproverò.
- Infine, – disse – è una sciocchezza avere paura dei gufi e delle civette!
Con le pistole in pugno, scavalcate alcune macerie penetrò in una vasta sala scoperta che pareva lo scheletro di una cappella.
Guardò intorno con stupore. Le cose che, vedute attraverso la breccia, gli eran sembrate mostruose, ora gli apparivano di proporzioni ridotte, e d’aspetto malinconico.
Un’altra breccia si apriva alla sua sinistra, oltre la quale si vedeva un’altra sala più buia.
Il cavaliere di Santa Croce vi si affacciò.
Qualcosa come un corridoio se ne dilungava. L’ombra vi era più fitta, impenetrabile, profonda come una voragine. Non si vedevano altri usci, fuor di quella nera bocca. Il cavaliere non esitò ad avvicinarvisi. Al barlume lunare potè vedere che non era un corridoio, ma una scala i cui gradini eran sepolti nel terriccio. Essa evidentemente conduceva in qualche sotterraneo.
Tese l’orecchio: non udì nessun rumore.
Discese un poco e si chinò per vedere fino in fondo; da un foro scendeva giù un raggio, che descriveva in terra un disco luminoso, al cui contrasto le tenebre apparivano più profonde.
Certo, pensava, la duchessa non poteva esser nascosta tra quelle rovine, non essendo presumibile che ve l’avessero lasciata sola, senza custodi. Qualche guardia avrebbe dovuto trovarcisi, che non l’avrebbe lasciato così agevolmente gironzolare.
Stette un po’ a guardare quel raggio di luna sotterra, che pareva moversi; e indi si voltò per rifare il cammino; ma non aveva ancor mosso il piede, che qualche cosa come una nube nera gli intercettò la luce, l’avvolse tutto quanto, lo strinse, gli imprigionò le braccia e le gambe, con una rapidità e una violenza tali, che egli non poté reagire, non poté servirsi delle pistole, si dibatté, si imbrogliò maggiormente in quella cappa tenace, cadde; e gli sembrò che un vuoto si facesse sotto di lui, che una forza ignota lo sollevasse, lo trasportasse.
Il terrore superstizioso lo assalì; egli non dubitò punto che gli spiriti dei quali aveva violato l’asilo lo sprofondassero nelle viscere della terra...
Luigi Natoli: La principessa ladra. Romanzo storico siciliano.
L'opera è la ricostruzione del romanzo originale pubblicato in dispense con la casa editrice La Gutemberg nel 1930.
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