La mattina di quel giorno Dorotea, modestamente
vestita, col lungo manto nero che le copriva quasi il volto era andata in
piazza S. Anna nel palazzo Falconara, del quale invano oggi si cercherebbero le
vestigia a causa dei tramutamenti edilizi che dal 1820 in poi hanno modificato e trasformato
la pianta della città di Palermo.
Mancava più di un’ora a mezzodì. Le strade erano
affollate di gente; venditori ambulanti, che andavano gridando la loro roba,
con voci cadenzate e talvolta con immagini così ardite, da non potersene
cogliere subito il significato reale; uomini di negozio; servi in livrea con
qualche schiavo appresso; carico di oggetti; commessi di mercanti; donne del
volgo, le più agiate coperte col manto nero, secondo l’usanza, le più povere
con un cencio sul capo; e in mezzo a tutta questa gente un serpeggiar di
carrozze signorili, di tarioli, di portantine; qualche lettiga che si dondolava
sui muli alla cadenza delle sonagliere, qualche carro dipinto vivacemente. Era
il via vai affaccendato di una grande città piena di ricchezze e di miserie, in
una bella mattinata di aprile.
Dorotea non pareva di
avvedersi di tutto questo tumultuare di vita d’intorno a lei, aveva
attraversato in fretta la Strada Nuova, la Discesa dei Giudici e la piazza di
S. Anna la Misericordia; entrando difilata nel portone, s’era indirizzata al
guardiaporta...
Ella rimase immobile nell’ampia sala, dalle
pareti bianche, dal soffitto ornato di lievi stucchi rococò, in mezzo ai quali
pompeggiavano le armi del casato, scudo azzurro, con sbarra d’oro e otto
stelle, tra cannoni, bandiere e spade in rilievo bianco e oro. Intorno intorno,
addossate alle pareti, sormontate dalle armi gentilizie; e sulle panche due
portantini, sonnecchianti, con le gambe distese, il nicchio gallonato sulle
ginocchia; i due lacchè e un “volante”. L’ozio pareva il nume titolare di
quella sala.
La signora duchessa, stava nel suo
abbigliatoio, seduta dinanzi allo specchio, avvolta in un ampio accappatoio di
mussola bianca, sparso di fiorellini rosa. Di qua e di là due cameriere,
reggevano dei vassoi d’argento carichi di boccette d’odori, vasetti di pomate,
ferri, forcine, spazzole, armature di fil di ferro, riccioli finti; scatole di
cipria, pennellini da dipingere ciglia e nei. Monsù, dietro alla signora, con
le agili sapieni mani volgeva e svolgeva le chiome, prendendo dai vassoi quel
che gli occorreva per costruire quella pettinatura, mirabile ma difficile
edificio, che richiedeva un buon paio d’ore di lavoro. Intanto faceva la
cronaca del giorno. Più in là, seduto sopra una elegante seggiola, con
l’occhialetto in mano, il signor cavaliere Gallego, dei principi di Militello,
onorato delle funzioni di cavalier servente della nobile dama.
La duchessa di Falconara non era più giovane; i
maldicenti che la conoscevano da un pezzo, assicuravano che essa avvicinavasi
alla cinquantina. Ne aveva infatti quarantasette: ma ci voleva uno sforzo di
immaginazione per riconoscere tanta maturità nel volto ancor fresco e roseo e
nella vivacità dello sguardo e del gesto; tanto più che l’arte sapiente di
Monsù sapeva cancellare le lievi ingiurie del tempo agli angoli degli occhi, e
qualche capello bianco spariva sotto il niveo strato della cipria.
Era bella, col suo piccolo naso lievemente
curvo, gli occhi grandi, neri, acuti, un carattere di alterigia e di volontà
nell’insieme del volto. Non ostante l’espressione di dolcezza e di tranquillità
che ella cercava di dare al suo sorriso e al suo sguardo, segno di una intima
soddisfazione, c’era talvolta in essi una durezza, o per lo meno una
insensibilità, che faceva dubitare se quell’animo fosse capace di tenerezza o
di compassione.
La sua casa, del resto, rivelava il culto quasi
esclusivo della persona; il lusso, la profusione, la inutilità di mille
nonnulla indicavano la ricchezza, il gusto, il godimento estetico della dama.
Un gusto e un godimento di raffinata, che delle dolcezze di una vita
artificiosa ha fatto lo scopo della vita stessa.
In quell’abbigliatoio, tappezzato di seta
bianca, dai mobili di puro stile Luigi XV, profumato, tiepido, ella troneggiava
tra il parrucchiere, dinanzi allo specchio, candida e rosea, con le labbra
dipinte di carminio e il piccolo neo sulla guancia, avvolta nell’accappatoio,
come in un pallio.
Sedette mollemente in una soffice poltroncina
dorata, prendendo in mano la poesia del Meli, con una studiata aria di
noncuranza e di degnazione. Appena Dorotea, col mantello rovesciato su le
spalle, entrò inchinandosi per baciarle la mano, la duchessa la guardò con
curiosità, poi le domandò:
- Chi
siete?
- Vostra
eccellenza mi perdoni, – rispose Dorotea – ma credevo di trovarla sola; ciò che
io debbo dirle non può nè deve essere udito da altri...
Disse queste parole con una certa fermezza,
quasi con un mal celato tono di dispetto. La duchessa se ne stupì e guardò più
curiosamente quella donna, così modestamente vestita, che osava parlarle in un
modo che ella non era abituata a udire.
Dorotea aveva una cinquantina d’anni, i capelli
grigi, pettinati in trecce, come le donne del popolo; un volto comune e
insignificante. Soltanto negli occhi v’era una espressione che ella pareva si
sforzasse di nascondere, abbassando le palpebre.
La duchessa guardò con intenzione il cavaliere,
che si era alzato alle prime parole.
- Ebbene? – disse la duchessa quando rimasero
sole.
- Mi chiamo Dorotea, – rispose la donna fissando
in volto la nobile dama.
Corrugò le sopraciglia per ricordare; poi a un
tratto un lieve rossore le si diffuse pel volto. Riprese freddamente:
- Dorotea?... Nient’altro?
- Poiché vostra eccellenza non ricorda il nome,
è inutile aggiungere altro. Il cognome le sarebbe d’altronde sconosciuto del
tutto… Infatti è passato tanto tempo…
- Spiegatevi meglio.
- Poiché me ne da licenza… Forse sarà necessario
risalite a molti anni fa… Ventisei anni! Nella mia memoria sono passati come un
giorno solo; ma per me è un’altra cosa… Ventisei anni addietro io abitavo in
una casa di campagna, quasi sulla riva del fiume S. Leonardo, sulla strada di
Termini. Era una di quelle case, che, secondo il bisogno, servono da osterie e
da locande pei viaggiatori, sorpresi o dal temporale, o dalla sera, o dalla
piena del fiume.
La duchessa sentì un’onda
di sangue salirle sul volto; ma non fece un gesto; appoggiò soltanto il capo a
una mano volgendolo un po’, in modo da lasciarlo nell’ombra... Pareva sopraffatta da
cupi pensieri; come se quel racconto la avesse risospinta indietro negli anni e
avesse suscitato nell'anima sua dolorosi ricordi, da lungo tempo sopiti.
Luigi Natoli: Calvello il bastardo.
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