Lo spettacolo era magnifico. La gradinata
popolare sembrava un mare agitato. Era come una massa compatta, scura, che non
stava un minuto ferma; qualcuno improvvisamente si alzava, faceva un gesto, che
nessuno capiva, ma bastevole per destare la curiosità; altri si alzavano, il
movimento si propagava, tutta una parte si levava in piedi, guardando, con un
sussurrio di domande, di supposizioni, di scherni.
Ma a un tratto si sentì uno squillo di
tromba; due araldi, a cavallo, uscirono sull’arena, la percorsero di trotto;
vennero dinanzi al padiglione reale, e s’inchinarono, agitando i berretti
piumati.
Venivano a prendere l’assentimento reale;
ritornarono indi dinanzi al padiglione riservato ai cavalieri giostranti, sul
quale era stesa una tenda.
A un nuovo squillo di tromba, la tenda si
aprì, e uscirono i quattro giudici del campo, i quali, percorso il giro
dell’arena, vennero a collocarsi sotto il padiglione reale, seguiti da scudieri
e serventi, paggi e guardie.
Squillaron nuovamente le trombe, e
uscirono i sei cavalieri tenitori del torneo, a cavallo, vestiti in tutta
armatura, con le visiere alzate, la lancia appoggiata al piede. Ognuno di essi
era seguito da due scudieri, che portavano lance di ricambio e lo scudo.
Erano, come aveva annunciato Simone,
messer Sancio de Lihori, messer Gilberto Talamanca, Galcerando di Santa Pau,
Giovanni Cabrera figlio di messer Bernardo, Artale de Luna, parente del re,
Berengario de Bages.
Ognuno di loro aveva il proprio colore
nella veste, nelle piume e nello scudo, corrispondente al colore del palvese
attaccato alla antenna e allo stendardo che vi svolazzava sopra; e sullo scudo,
oltre all’arme, era il motto o impresa che ciascun cavaliere aveva adottato; la
ricerca del motto, dalla forma e dalla ricchezza della bardatura del cavallo e
del vestito degli scudieri, formava per se stessa una gara, che aveva anch’essa
un premio.
I sei cavalieri mantenitori percorsero
l’arringo, fino al padiglione reale, e fatto il debito saluto ritornarono
innanzi al proprio padiglione dove si schierarono.
Dall’altro lato del padiglione, opposti
agli stendardi e ai palvesi dei mantenitori, v’erano gli stendardi e i palvesi
dei cavalieri che avevano raccolto la sfida.
Il primo stendardo sventolava sopra
un’antenna più alta delle altre, in cima alla quale si librava un’aquila
dorata, con in petto le armi di Aragona. Lo stendardo era rosso e giallo; ma
una grande sciarpa vi ondeggiava sopra, e portava tre colori simbolici: il
bianco, il rosso e il verde.
Erano i tre colori che aveva adottato re
Martino: (15) ed erano ripetuti da una banda che attraversava il palvese, sul
quale stava scritto il motto: Esperando y
vinciendo.
V’era poi lo stendardo di messer Sancio
de Lihori, celestre, con un leone portante un giglio d’oro nella zampa; lo
stesso era dipinto sul palvese, col motto: Fuerte
y puro.
Lo stendardo di messer Gilberto Talamanca
era partito di bianco e azzurro; il suo motto era: Istoi a onde mereezo; veniva poi lo stendardo di Galcerando di
Santapau, rosso, con le tre sbarre d’argento per traverso; quello di Giovanni
Cabrera giallo, con lo scudo orlato a scacchi bianchi e neri, e la capra nera
nel campo d’oro; quello di Artale de Luna formato a scacchi gialli e neri, con
una mezzaluna rovesciata nella parte superiore; quello di Berengario de Bages,
con due cuori incatenati nel fondo verde. E ciascuno col suo motto.
Dall’altra parte dello stendardo reale vi
erano quelli dei cavalieri che raccoglievano la sfida: Antonio Sclafani, conte
di Adernò, con lo stendardo azzurro, e nel mezzo lo scudo partito di bianco e
nero, con le due gru apposte; Giovanni Abatellis, stendardo bianco, e lo scudo
partito con un grifo a destra, il sole raggiante a sinistra; Antonio di Santo
Stefano, signor della Ginestra, stendardo rosso con lo scudo d’argento e la
croce nera; Berlinghieri Ventimiglia, stendardo bianco, con lo scudo partito di
rosso e d’oro e la banda a scacchi bianchi e azzurri, che fu già arme gloriosa
dei re normanni; Corrado Lancia, stendardo verde e leon nero dalla lingua
rossa, rampante nello scudo d’oro e Riccardo Filingeri, stendardo rosso e azzurro,
con lo scudo azzurro dalla croce d’argento sparsa di campanelli azzurri.
Anch’essi avevano il loro motto.
L’ultimo era lo stendardo nero,
misterioso, col palvese dal cuore sanguinante attraversato dalla banda nera, e
il motto oscuro, del quale nessuno poteva intendere il senso riposto....
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